Koyo Kouoh: L’arte è nelle crepe, non nello smalto
Il premio Meret Oppenheim prizeCollegamento esterno ha colto di sorpresa Koyo Kouoh - e non solo perché non si interessa di premi. La curatrice elvetica-camerunese dice di non aver mai trovato una forte eco in Svizzera per i suoi soggetti artistici – il postcolonialismo, la diaspora africana e la politica dell'identità – per i quali ha ricevuto elogi in molti altri paesi.
Koyo Kouoh, descritta dal New York Times nel 2015 come “una delle curatrici d’arte più importanti dell’Africa”, è sempre in movimento, anche nel bel mezzo di una pandemia. Attualmente vive a Città del Capo, in Sudafrica, dove gestisce lo Zeitz Museum of Contemporary Art Africa (MOCAA), che ospita la più grande collezione d’arte contemporanea del mondo.
SWI swissinfo.ch l’ha incontrata durante un breve soggiorno in Svizzera. Suo marito vive a Basilea, ma il suo cuore è a Zurigo, dice, anche se sta cercando di tornare in Sudafrica (ma è ancora bloccata in Svizzera).
Nata nel 1967 nella città costiera di Douala in Camerun, Koyo Kouoh è venuta a Zurigo nella prima adolescenza per riunirsi con la madre. Ha seguito una formazione bancaria e commerciale prima di spostare la sua attenzione sulle arti.
SWI swissinfo.ch: Come ha vissuto il trasferimento della sua vita dal Camerun alla Svizzera?
Koyo Kouoh: Sono nata a Douala, dove la vivacità, l’attività, il rumore della vita urbana erano molto forti. Così, venendo a Zurigo, l’ho trovata estremamente tranquilla, piccola, pulita; tutto ciò che è caratteristico della Svizzera. Per me è stato un viaggio emotivo, estremamente arricchente per poter vivere di nuovo con mia madre e per imparare una nuova lingua, lo svizzero-tedesco, che ho sempre voluto imparare. Il Camerun è stato una colonia tedesca fino alla Prima guerra mondiale e molte parole tedesche sono ancora presenti nel nostro dialetto locale.
SWI swissinfo.ch: Il suo interesse per l’arte è maturato a lungo o è giunto per caso?
K.K.: La gente è fatta di molte stoffe, ve ne è una per la creatività e per le arti, oppure no. Sono contraria all’idea che solo in certi contesti o con una certa educazione si abbia accesso a idee creative o artistiche. Io provengo da un contesto molto modesto; mia nonna era una sarta. Non si può crescere in Africa senza avere accesso alla creatività. La danza, la musica, l’abbigliamento sono presenti ovunque. Non c’è bisogno di una scuola specifica, fa parte dello stile di vita.
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Zurigo vista da Koyo Kouoh
SWI swissinfo.ch: Nel 2014 ha presentato una proposta per la biennale di Manifesta 11 che si è svolta a Zurigo (2016). La proposta è stata respinta, ma ha suscitato non poche reazioni all’interno della scena artistica locale. Quali sono stati i temi principali che ha voluto affrontare con essa?
K.K.: Non ho mai chiesto di partecipare a biennali, ma in questo caso avevo ricevuto una richiesta. Era anche un periodo in cui pensavo di più al circuito delle biennali d’arte in sé, allo spettacolo che produce e al marketing che genera nelle città.
Anche se la mia proposta non ha avuto successo, mi è piaciuta lo stesso, perché credo che mettesse sotto i riflettori aspetti storici che pochissimi conoscono di Zurigo.
SWI swissinfo.ch: Cosa c’è da sapere su Zurigo?
È un posto così piccolo, ma così carico di cultura, di ricchezza. Volevo davvero guardare alle crepe invece che allo smalto. Sarebbe stato qualcosa che si sarebbe infiltrato nella città, invece di esporre la città con bellissime viste.
Sentivo che Zurigo non ha bisogno di un’altra biennale contemporanea, ha bisogno di un’altra conversazione. E all’epoca la Svizzera era totalmente invischiata in tutto il discorso sul razzismo, nelle controversie dell’Unione democratica di centro [partito di destra] sulla limitazione delle migrazioni. È una cosa che si ripete in continuazione.
Sarebbe davvero bello collegare Zurigo e la Svizzera alle più grandi narrazioni del XX secolo: postcolonialismo, postmodernità, migrazione, razzismo, colonialismo nelle sue molteplici forme.
SWI swissinfo.ch: Dopo questo rifiuto, l’attribuzione del Premio Meret Oppenheim è stata una sorpresa per lei?
K.K.: Una sorpresa totale. Non ho mai lavorato in Svizzera come curatrice o produttrice culturale. Mi sono trasferita dalla Svizzera in Senegal esattamente 24 anni fa: il mio intero percorso professionale non è avvenuto qui.
Ho trascorso qui la mia giovinezza e ho un buon ricordo di quel tempo. Non sapevo che l’Ufficio federale della cultura a Berna mi seguisse in qualche modo, per il semplice motivo che i temi che mi interessano, le idee che porto avanti nel mio lavoro – diaspora africana, arte concettuale basata sui processi, postcolonialismo, politica dell’identità – non sono esattamente popolari qui. Non ho avuto l’opportunità di lavorare in questo Paese in questi campi, ma per me va bene. Non considero la Svizzera come un potenziale luogo di lavoro.
SWI swissinfo.ch: Cosa rimane delle sue cravatte svizzere?
K.K.: È una cosa emotiva. Amo il Paese, ho il passaporto svizzero, la mia famiglia è qui, e tre anni fa, per la prima volta, ho ricevuto da Pro Helvetia l’invito a curare il Salon Suisse [per la Biennale di Venezia, uno spazio parallelo all’esposizione del Padiglione svizzero ufficiale]. Ma non penso mai ai premi. Faccio quello che devo fare.
SWI swissinfo.ch: Le capita invece di pensare alla figura di Meret Oppenheim, quale artista?
K.K.: Certo! Quando ho iniziato ad interessarmi all’arte il movimento surrealista era un ovvio riferimento, l’eredità di Dada era molto presente, quindi ovviamente Meret Oppenheim era una figura. Anche perché era una donna e a quei tempi avere una voce o una posizione, soprattutto tra tutti quei super macho surrealisti, come André Breton, era un bel risultato per una donna proveniente da un paese così piccolo. Inoltre, il femminismo per me è la mia prima natura. Sono molto coinvolta nella voce delle donne, ma non faccio molto rumore intorno ad essa. Non ho bisogno di portare una bandiera, mi viene naturale.
SWI swissinfo.ch: La Svizzera ha uno strano rapporto con il Modernismo. Anche se Dada ha preso il via a Zurigo, il movimento è ancora molto timidamente insegnato nelle scuole.
K.K.: Negli anni Ottanta, lo spirito del Cabaret Voltaire è stato fatto rivivere in un certo modo. Ma dobbiamo considerare che c’è un alto livello di specializzazione nella cultura svizzera, specializzazione in tutto. Guardate come è strutturata l’istruzione in Svizzera. Le persone sono intrappolate molto presto in campi diversi e non hanno accesso alle conoscenze di altri campi. A differenza di luoghi come il Camerun o il Brasile, o di altre aree postcoloniali, dove si tende ad avere un sapere pan-sociale, un sapere generalista, dove si conoscono e si imparano cose diverse. Qui si sa molto di una cosa, principalmente.
La Svizzera ha anche un grande complesso di inferiorità, in termini di dimensioni, di autonomia. Non c’è una vera e propria uniformità nel Paese. Parliamo tedesco, francese, italiano – non c’è uno svizzero in quanto tale. Ho osservato nel corso degli anni che è un Paese che ama stare sul marciapiede e fornire l’asfalto per pavimentare la strada – e fare soldi facendo questo. Lo si vede anche quando si guarda agli studi coloniali e alla storia coloniale: la Svizzera sostiene sempre “siamo stati neutrali, non siamo stati imperialisti, non abbiamo mai partecipato a niente di tutto questo”. Certo che l’avete fatto! Fino ad oggi. Ricordate che il più grande mercato delle materie prime è quello di Zugo, per esempio.
SWI swissinfo.ch: Una nuova generazione di storici svizzeri ha lavorato negli ultimi anni per svelare il passato e il presente coloniale della Svizzera. Però non ha ancora raggiunto le scuole.
K.K.: Ci vorrà ancora un po’ di tempo per raggiungere le scuole. La cosa buona e la cosa cattiva di questo Paese è che tutto va molto lentamente. È brutto quando si ha fretta. La lentezza ha i suoi vantaggi, ma nei tempi che stiamo vivendo ora, le cose dovrebbero essere più veloci. Tutta questa conversazione deve arrivare alle famiglie. Perché ci sono ancora molti svizzeri che vivono queste mitologie sul Paese, che non hanno un piede nella storia. Tutte queste mitologie devono essere disfatte. Questo non deve in alcun modo far vergognare il Paese. Si tratta di offrire un quadro completo.
Traduzione di Armando Mombelli
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