La lotta per la sopravvivenza dei produttori di latte
La sovrapproduzione lattiera ha provocato un crollo del prezzo del latte non solo sul mercato europeo, ma pure in Svizzera. Per sopravvivere, i contadini sono obbligati a produrre in maniera sempre più efficace. Un allevatore di mucche ad alto rendimento e un produttore di latte high-tech spiegano perché non sono (ancora) stati sommersi dalla marea di latte.
È tra i produttori di latte più grandi e moderni della Svizzera. Quando ne hanno voglia, le sue mucche si lasciano mungere da un robot. Anche la distribuzione del foraggio e la pulizia della stalla high-tech avvengono in maniera completamente automatizzata. «Ci siamo specializzati nell’allevamento di bovini da latte, abbiamo investito milioni, razionalizzato e aumentato l’efficacia», spiega il contadino svizzero-tedesco, che preferisce rimanere anonimo.
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«Non vorrei fare nient’altro»
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Siamo a fine maggio e l’agricoltore diplomato di 31 anni attende con trepidazione un’e-mail dal suo acquirente, la latteria Sachsenmilch a Dresda. Nel messaggio verrà comunicato il prezzo del latte per il mese di giugno. In maggio, un litro valeva 20,75 centesimi, tre centesimi in meno rispetto ad aprile. E cinque centesimi in meno rispetto…
Negli ultimi mesi, il prezzo del latte di latteria (destinato alla trasformazione) è calato ulteriormente, scendendo sotto i 50 centesimi al litro. Anche con la massima efficacia, il nostro produttore dovrebbe guadagnare almeno 55 centesimi al litro per coprire i costi. «Prima di aprire la porta della stalla devo infilare una banconota da cento franchi», dice con amara ironia. Col suo lavoro, non solo non guadagna, ma perde pure dei soldi.
Il contadino non ha però l’intenzione di mollare. «Sono condannato alla produzione. Sempre di più, sempre più in fretta, sempre più a buon mercato. Posso solo sperare che i primi a chiudere siano i miei vicini». L’allevatore è ben consapevole della situazione: «Tutto questo porterà in un modo o nell’altro alla rovina. Ma se non partecipo a questa corsa, ho già perso in partenza».
In quanto imprenditore con numerosi impiegati, deve far capo alle riserve e investire un minimo per far sì che la sua azienda possa superare questa fase di prezzi bassi, spiega, sperando in un rapido incremento dei prezzi.
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«Se vogliamo che la Svizzera rimanga un paese produttore di latte, la politica deve modificare le condizioni quadro affinché i contadini possano produrre con minori costi», afferma. Il produttore di latte cita l’esempio della protezione doganale per i cerealiCollegamento esterno introdotta dalla Svizzera. «Il produttore svizzero di cereali può essere contento, siccome ottiene un buon salario orario. Ma per il produttore di latte, che per il foraggio deve pagare il doppio rispetto al contadino tedesco, è una rovina».
Organizzazione nei minimi dettagli
Malgrado il crollo del prezzo del latte, Toni Peterhans di Fislisbach, nel canton Argovia, non si lamenta. Le sue mucche di razza Holstein sono tra «le migliori della Svizzera», dice “l’allevatore dell’anno 2013”. Mentre una mucca fornisce in media 23’000 litri di latte, «le nostre producono 58’000 litri prima di andare al macello. Vivono due volte più a lungo, ciò che incide positivamente sulla bilancia costi-profitti», spiega.
Il successo non è soltanto una questione di fortuna. Il funzionamento dell’azienda è organizzato fino nei minimi dettagli, dalla sofisticata produzione di foraggio all’analisi dello sterco, sottolinea Toni Peterhans. «Siamo molto strutturati. La coda delle mucche viene lavata ogni settimana e l’animale viene pulito con una macchina a vapore tre volte all’anno. Da noi regna l’ordine. Si può visitare la fattoria con scarpe basse».
Una nuova automobile, un nuovo trattore
Con i prezzi del latte attuali, nemmeno un allevatore all’avanguardia come Toni Peterhans riesce a coprire i costi di produzione. Ma se già per lui la situazione è difficile, come se la passano i suoi colleghi meno efficaci? «Molti fanno fatica a dormire, devono risparmiare, rinunciano agli investimenti e riescono a saldare le fatture soltanto a fatica. In alcune fattorie la situazione è pessima», rileva Toni Peterhans, aggiungendo con un pizzico di orgoglio di aver acquistato e pagato un nuovo trattore da 150’000 franchi.
Se l’allevatore si è potuto permettere anche un’automobile nuova è anche grazie alla diversificazione della sua attività. Contrariamente a quanto raccomandato da alcuni consulenti agricoli, non ha puntato tutto su un’unica carta. Nella sua azienda agricola di 52 ettari non si accontenta di allevare bovini, ma si dedica pure all’agricoltura e alla produzione di energia solare. Inoltre, sfrutta al massimo le sue macchine. «Trasportiamo il liquame delle altre aziende agricole alla centrale a biogas; non insiliamo soltanto per noi, ma anche per gli altri», spiega.
Lotta per la sopravvivenza
Nell’Unione europea, dove il calo del prezzo del latte è stato decisamente più marcato che in Svizzera, la situazione è ancora più drammaticaCollegamento esterno. «Nel 2015, la differenza di prezzo tra Svizzera ed Ue è ulteriormente aumentata di 10 centesimi», indica Stefan Kohler, direttore dell’organizzazione di categoria Interprofessione Latte (IP LatteCollegamento esterno). «Stando alle informazioni che mi giungono all’orecchio, i produttori di latte dell’Ue sono allo stremo».
In Svizzera, ogni anno spariscono dalle 800 alle 900 aziende lattiero-casearie. Gli affari vanno male anche per i produttori di latte di latteria, sebbene se la passino meglio dei colleghi in Europa. Tra le ragioni vi è il fatto che il mercato elvetico del latteCollegamento esterno è liberalizzato soltanto in parte. Nei settori protetti, i produttori locali possono ancora apportare un valore aggiunto, osserva Stefan Kohler. I contadini, ad esempio, ottengono un miglior prezzo per il latte utilizzato per fare il burro, che in Svizzera è venduto al triplo rispetto all’estero.
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Nel paragone internazionale, la produzione di latte in Svizzera avviene ancora in modo poco strutturato e vicino alla natura. Le mucche hanno ad esempio la possibilità di andare sui pascoli o, perlomeno, di muoversi all’interno della stalla. E questo grazie alla legislazione e alle direttive del settore.
In Svizzera, i cambiamenti strutturali – più lenti rispetto all’Ue – sono più contenuti dei progressi osservati a livello produttivo, secondo Stefan Kohler. «Nel corso degli ultimi anni, il contesto della politica agricola non ha forzatamente favorito un’economia lattiera professionale. A lungo termine è però inevitabile che alcuni produttori di latte gettino la spugna», avverte il direttore di IP Latte.
L’ABC del latte
Il fatto che la situazione dei produttori di latte svizzeri sia migliore rispetto a quella dei colleghi europei è legato alla cosiddetta segmentazione del mercato lattieroCollegamento esterno, ovvero alla suddivisione del latte in segmenti A, B e C con prezzi indicativi diversi, spiega il direttore di IP Latte Stefan Kohler. Questa segmentazione non dipende dalla qualità del latte, ma è una misura volta a contrastare la sovrapproduzione lattiera introdotta nel 2011, due anni dopo la soppressione del regime di contingentamento.
Nel segmento A ci sono i prodotti lattieri con protezione doganale e destinati al mercato interno (ad esempio burro o latte da bere). Il latte del segmento B, più a buon mercato, è esportato nell’Unione europea, mentre quello del segmento C, il cui prezzo è ancora più basso, è venduto sul mercato mondiale.
In primavera, il mercato lattiero svizzero era così suddiviso: 83% di latte di segmento A, 12% di segmento B e 5% di segmento C.
L’organizzazione IP Latte controlla che questa segmentazione venga mantenuta durante l’intera catena di creazione del valore, dal produttore al dettagliante. In questo modo si vuole evitare, ad esempio, che venga acquistato del latte B per produrre burro destinato al mercato interno. Di principio, un contadino non può essere obbligato a produrre del latte C. Se però intende fornire più latte di quello stabilito nel contratto, può dichiarare l’eccedenza come latte C (il cui prezzo, come detto, è più basso).
Ritenete che il prezzo del latte nel vostro paese sia giusto, troppo basso o eccessivamente alto? Dite le vostra.
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«Non vorrei fare nient’altro»
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Siamo a fine maggio e l’agricoltore diplomato di 31 anni attende con trepidazione un’e-mail dal suo acquirente, la latteria Sachsenmilch a Dresda. Nel messaggio verrà comunicato il prezzo del latte per il mese di giugno. In maggio, un litro valeva 20,75 centesimi, tre centesimi in meno rispetto ad aprile. E cinque centesimi in meno rispetto…
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Ricercatori svizzeri e agricoltori stanno lottando contro il tempo per salvare le antiche razze da allevamento, prima che queste vengano soppiantate da razze bovine più produttive. In Europa come in Africa, il bestiame tradizionale si adatta meglio alle condizioni locali e alle sfide ambientali.
Negli ultimi dieci anni, il numero di vacche lattifere in Svizzera è diminuito, ma ciononostante il settore caseario ha prodotto più latte. Capire il perché è facile: nel 2013, una mucca svizzera produceva in media 4 kg di latte in più al giorno rispetto al 2000, indica l’Ufficio federale di statistica.
L’aumento della produttività è in parte dovuto alla selezione delle razze allevate, che consente agli agricoltori di favorire il bestiame che presenta determinate caratteristiche. Questa selezione comporta però anche dei risvolti negativi: col tempo, il fatto di puntare troppo sulla produttività può condurre alla sparizione di alcuni tratti genetici, inclusi quelli che hanno consentito alle razze tradizionali di adattarsi al loro ambiente.
«Molte razze di origine svizzera sono a rischio siccome non sono altrettanto produttive di quelle moderne», dice a swissinfo.ch Catherine Marguerat dell’Ufficio federale dell’agricoltura (UFAG).
«Le razze [tradizionali] sono molto preziose per la Svizzera se si considerano i pericoli dei futuri mutamenti nell’ambiente. Queste razze sono solitamente molto robuste e potrebbero avere dei geni che consentono di affrontare meglio le sfide ambientali».
Un problema nei paesi di sviluppo
L’essere umano addomestica le specie animali da secoli. Il concetto di “razza” è però nato soltanto circa 200 anni fa, quando gli agricoltori iniziarono a selezionare alcuni animali sulla base delle caratteristiche fisiche che rendevano le bestie più interessanti per l’allevamento.
Stéphane Joost, ricercatore del Politecnico federale di Losanna (EPFL), stima che nel corso del XX secolo circa il 16% delle razze animali da reddito si è estinto, mentre il 15% è stato minacciato di estinzione a causa dell’allevamento selettivo.
Nei paesi in via di sviluppo, il problema della conservazione della diversità genetica delle razze da allevamento tradizionali è più grave che negli Stati industrializzati, tra cui la Svizzera, spiega Stéphane Joost, responsabile di un progetto di ricerca di recente pubblicazione della Fondazione europea per la scienza (FES), e coordinato dall’EPFL.
Con la promessa di una produttività a corto termine, molti agricoltori preferiscono le razze “cosmopolita” a quelle locali. Spesso, però, gli animali non autoctoni muoiono siccome non sono adattati al clima locale. Sono inoltre vulnerabili alle malattie del posto.
Ad esempio, il bestiame nel Burkina Faso è minacciato dalla tripanosomiasi, un’infezione parassitaria trasmessa dalla mosca tse-tse che causa la morte di un milione di animali all’anno. Le mucche della razza indigena Baoule presentano una resistenza genetica alla malattia. Quelle della razzia asiatica Zebuine, preferite per la loro forza e la loro produzione di carne e latte, sono invece estremamente vulnerabili.
Un team internazionale di ricercatori ha studiato la genetica delle due razze e gli sforzi degli allevatori per combinarle. Il loro scopo è di capire come meglio preservare la resistenza alla malattia delle Baoule e la robustezza fisica delle Zebuine. La FAO prevede di pubblicare i risultati del progetto della FES in forma elettronica e stampata, così da consentire agli agricoltori nei paesi in via di sviluppo di avere accesso alle informazioni.
Tradizione svizzera
Il progetto di ricerca della FES sul bestiame in Africa può essere implementato anche alla Svizzera, ritiene Stéphane Joost. «Con il riscaldamento globale, ad esempio, la Svizzera e altri paesi alpini saranno confrontati con condizioni più rigide rispetto alle nazioni circostanti con un territorio pianeggiante. A causa della sua topografia, buona parte dei bovini, delle pecore e delle capre sono sulle montagne».
Con l’aumento della temperatura, spiega, l’erba dei pascoli - che rappresenta la dieta principale della maggior parte delle vacche lattifere in Svizzera - crescerà a una quota più elevata sui versanti montani, più vicino alle vette rocciose. In questi habitat in altitudine, più aridi, l’erba è tuttavia destinata a diventare scarsa e meno nutritiva.
Una sfida dietetica che non dovrebbe comunque preoccupare i bovini d’Evolène della Val d’Hérens, in Vallese. La tradizionale razza svizzera, oggi minacciata di estinzione, ha una costituzione robusta e un metabolismo che le consente di sopravvivere anche quando le risorse alimentari sono limitate.
«È un vantaggio importante disporre di razze robuste e adattate che sono in grado di nutrirsi di un’erba di qualità potenzialmente inferiore, mantenendo però un alto livello di produzione», osserva Stéphane Joost.
Evolène, piccole ma robuste
Negli ultimi anni, le vacche d’Evolène si sono lentamente riprese grazie agli sforzi di conservazione della fondazione senza scopo di lucro ProSpecieRara e di allevatori indipendenti come Adrienne Stettler, proprietaria di una pittoresca fattoria a Utzigen, vicino a Berna. Oggi in Svizzera si contano tra i 400 e i 450 bovini d’Evolène, di cui 20 appartengono a Adrienne Stettler, che le alleva sia per la carne sia per il latte.
Malgrado la loro dimensione relativamente piccola - l’altezza al garrese è di 115-130 centimetri contro i 147 in media di una Holstein - le vacche d’Evolène sono delle buone produttrici di latte, con circa 5'000 litri all’anno, spiega Adrienne Stettler. Le Holstein possono produrre il triplo di latte, ma necessitano in compenso di più cibo e sono più esposte alle malattie.
Una razza ottimale
Negli ultimi dieci anni, spiega Catherine Marguerat, la Svizzera ha fatto dei progressi: ha accresciuto la dimensione delle popolazioni di razze di bovini rare, aumentato la diversità genetica, intensificato i programmi di conservazione e sensibilizzato il pubblico. C’è però ancora del lavoro da fare.
«Dobbiamo sviluppare dei piani di emergenza per le razze in via di estinzione nel caso in cui scoppiasse un’epidemia e costituire delle banche genetiche per pecore, conigli e galline. Dobbiamo inoltre incoraggiare un numero maggiore di allevatori a partecipare ai programmi di conservazione», afferma.
Per il futuro dei programmi di selezione del bestiame, sottolinea, sarà essenziale trovare un equilibrio tra l’adattamento genetico tradizionale e le caratteristiche moderne di produttività. «Una razza ottimale è quella che è bene adattata alle condizioni locali della Svizzera e che può nutrirsi principalmente di erba e fornire prodotti di alta qualità».
Catherine Marguerat e Stéphane Joost partecipano entrambi a GENMON, un progetto che coinvolge l’UFAG e l’EPFL e che dovrebbe essere lanciato l’anno prossimo. L’obiettivo è di sviluppare uno strumento per monitorare le risorse genetiche animali in Svizzera.
«[GENMON] permetterà alle associazioni di allevatori e al governo di valutare la sostenibilità delle attività di allevamento per le razze svizzere. Fornirà informazioni sul grado di rischio e la popolazione, integrando anche parametri socioeconomici e ambientali», indica Catherine Marguerat.
Animali più vulnerabili alle malattie
Il servizio di monitoraggio della biodiversità del Dipartimento federale dell’ambiente indica che, dalla seconda metà del XX secolo, l’agricoltura svizzera si concentra su un piccolo numero di razze da allevamento.
Oggigiorno, la perdita sempre più accentuata di razze animali è ulteriormente aggravata dall’aumento delle razze ibride moderne, più produttive. Con la riduzione della diversità genetica, le popolazioni di animali da allevamento tendono alla consanguineità e quindi a una maggiore uniformità, ciò che le rende più vulnerabili alle minacce esterne quali parassiti e malattie.
Perché abbiamo bisogno degli animali da allevamento tradizionali?
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Negli ultimi dieci anni, il numero di vacche lattifere in Svizzera è diminuito, ma ciononostante il settore caseario ha prodotto più latte. Capire il perché è facile: nel 2013, una mucca svizzera produceva in media 4 kg di latte in più al giorno rispetto al 2000, indica l’Ufficio federale di statistica.
L’aumento della produttività è in parte dovuto alla selezione delle razze allevate, che consente agli agricoltori di favorire il bestiame che presenta determinate caratteristiche. Questa selezione comporta però anche dei risvolti negativi: col tempo, il fatto di puntare troppo sulla produttività può condurre alla sparizione di alcuni tratti genetici, inclusi quelli che hanno consentito alle razze tradizionali di adattarsi al loro ambiente.
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«Le razze [tradizionali] sono molto preziose per la Svizzera se si considerano i pericoli dei futuri mutamenti nell’ambiente. Queste razze sono solitamente molto robuste e potrebbero avere dei geni che consentono di affrontare meglio le sfide ambientali».
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Stéphane Joost, ricercatore del Politecnico federale di Losanna (EPFL), stima che nel corso del XX secolo circa il 16% delle razze animali da reddito si è estinto, mentre il 15% è stato minacciato di estinzione a causa dell’allevamento selettivo.
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Ad esempio, il bestiame nel Burkina Faso è minacciato dalla tripanosomiasi, un’infezione parassitaria trasmessa dalla mosca tse-tse che causa la morte di un milione di animali all’anno. Le mucche della razza indigena Baoule presentano una resistenza genetica alla malattia. Quelle della razzia asiatica Zebuine, preferite per la loro forza e la loro produzione di carne e latte, sono invece estremamente vulnerabili.
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Il progetto di ricerca della FES sul bestiame in Africa può essere implementato anche alla Svizzera, ritiene Stéphane Joost. «Con il riscaldamento globale, ad esempio, la Svizzera e altri paesi alpini saranno confrontati con condizioni più rigide rispetto alle nazioni circostanti con un territorio pianeggiante. A causa della sua topografia, buona parte dei bovini, delle pecore e delle capre sono sulle montagne».
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Catherine Marguerat e Stéphane Joost partecipano entrambi a GENMON, un progetto che coinvolge l’UFAG e l’EPFL e che dovrebbe essere lanciato l’anno prossimo. L’obiettivo è di sviluppare uno strumento per monitorare le risorse genetiche animali in Svizzera.
«[GENMON] permetterà alle associazioni di allevatori e al governo di valutare la sostenibilità delle attività di allevamento per le razze svizzere. Fornirà informazioni sul grado di rischio e la popolazione, integrando anche parametri socioeconomici e ambientali», indica Catherine Marguerat.
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Oggigiorno, la perdita sempre più accentuata di razze animali è ulteriormente aggravata dall’aumento delle razze ibride moderne, più produttive. Con la riduzione della diversità genetica, le popolazioni di animali da allevamento tendono alla consanguineità e quindi a una maggiore uniformità, ciò che le rende più vulnerabili alle minacce esterne quali parassiti e malattie.
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