La Svizzera, un paradiso fiscale in cerca di redenzione
A giugno, l'elettorato sarà chiamato a decidere se la Svizzera dovrà implementare un accordo globale per un’imposta minima sui redditi delle società. Chi è a favore della proposta sostiene che servirà a lasciarsi alle spalle l’equivoca reputazione di paradiso fiscale del Paese, ma c’è chi pensa che la strada sia ancora lunga.
Sono passati più di quarant’anni dal cosiddetto Gordon ReportCollegamento esterno del Dipartimento del Tesoro statunitense, in cui la Svizzera veniva descritta come “il prototipo del paradiso fiscale moderno”. Da allora, il Paese elvetico ha implementato diverse riforme per mettere fine ai regimi fiscali speciali, condividere informazioni tributarie con altri Paesi e bloccare alcune scappatoie.
Tuttavia, viene ancora additato tra i maggiori colpevoli quando si tratta di permettere alle grandi multinazionali di evitare di pagare tutte le tasse dovute. Il 2021 Corporate Tax Haven IndexCollegamento esterno, un indice che misura quanto le leggi e le politiche dei vari Paesi favoriscano l’evasione fiscale, mette la Svizzera al quinto posto, appena dietro i Paesi Bassi e note isole con tassazioni quasi inesistenti come le Isole Vergini britanniche, le Cayman e le Bermuda.
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Il Paese alpino ha alcune delle imposte sui redditi d’impresa più basse al mondo, soprattutto nel Canton Zugo, sede di giganti internazionali come Glencore, dove l’aliquota legale si aggira attorno all’11%.
La situazione potrebbe cambiare se, a giugno, elettrici ed elettori svizzeri approveranno un emendamento costituzionale per l’introduzione di un’imposta sui redditi d’impresa minima del 15%, nell’ambito di un accordo globale guidato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e sostenuto da più di 130 Paesi. Se il voto risulterà favorevole, la nuova tassazione verrà applicata dal 2024.
Dopo un’iniziale riluttanza, i gruppi a sostegno delle imprese si sono espressi in favore dell’aumento. Anche se le multinazionali si troveranno a pagare più tasse, infatti, potrebbe essere una buona occasione per alterare la “percezione” della Svizzera come paradiso fiscale.
“Sono anni che la Svizzera tenta di mostrare alla comunità internazionale che ha delle regole, che c’è trasparenza e che fa parte del nuovo ordine fiscale”, ha spiegato Karine Uzan Mercié, capo del reparto tassazione dell’azienda edile Holcim durante un evento mediatico tenuto dai gruppi di pressione economica SwissHolding ed Economiesuisse lo scorso marzo.
“Non adottare la tassazione minima rappresenterebbe un passo indietro in questo senso, oltre a mandare un messaggio alquanto contraddittorio alla comunità internazionale”.
Una misura insufficiente
Non esiste una definizione ufficiale di paradiso fiscale, ma in genere la presenza di imposte basse o quasi nulle è considerata sostanziale. Altre definizioni includono anche la segretezza finanziaria e la presenza di leggi o politiche che favoriscano il trasferimento dei profitti delle grandi aziende globali in regioni dalla tassazione limitata per alleggerirne il carico fiscale, impedendo ai Paesi di cui sono originarie, soprattutto nel mondo in via di sviluppo, di godere del relativo gettito fiscale.
L’accordo globale del 2021 è un tentativo di mettere fine a una gara al ribasso sulle imposte sui redditi d’impresa che negli ultimi quarant’anni le ha viste calare da una media del 45% al 25%, con un passaggio di miliardi alle regioni a tassazione ridotta.
Non esiste una definizione globalmente riconosciuta di paradiso fiscale. Uno dei primi studi accademici sulla questione descriveva i paradisi fiscaliCollegamento esterno come giurisdizioni a tassazione limitata che offrono ad aziende e singoli individui la possibilità di evadere le tasse. Definizioni più recenti, però, fanno una panoramica più ampia, includendo anche trasparenza e segretezza finanziaria. La Tax Justice Network definisce un paradiso fiscale come un Paese o una giurisdizione che “consente a multinazionali e persone fisiche di sottrarsi alle norme di legge nei Paesi in cui operano o vivono, pagando meno tasse di quanto dovrebbero”.
Altri operano un distinguo per le giurisdizioni in cui viene effettivamente svolta un’attività commerciale. Nel 1998, l’OCSE ha individuato quattro fattori che caratterizzano i paradisi fiscali: la mancanza di attività commerciali sostanziali nel Paese, una tassazione quasi inesistente, l’assenza di uno scambio di informazioni e scarsa trasparenza. Tax Foundation usa “paradiso fiscale” e “centro finanziario offshore” quasi come sinonimi, per fare riferimento a giurisdizioni fiscali piccole ma con una solida amministrazione, che non vantano un’attività economica di rilievo a livello locale e impongono una tassazione inesistente o quasi su chi investe dall’estero
L’istituzione di un’imposta sui redditi d’impresa minima del 15% obbligherebbe buona parte dei cantoni svizzeri, che stabiliscono da sé la propria tassazione, ad aumentare le aliquote imposte alle grandi multinazionali. Inoltre, renderebbe obsoleti alcuni regimi fiscali preferenziali, come per esempio l’aliquota ridotta degli utili da brevetti e diritti analoghi (o “patent-boxCollegamento esterno“), di cui tante industrie elvetiche, incluso il settore farmaceutico, hanno finora beneficiato.
Certo, è probabile che la Svizzera migliorerebbe la sua posizione nella classifica del Corporate Tax Haven Index, ma i problemi non finirebbero certo lì, dicono i sostenitori di una maggiore giustizia fiscale. Mark Bou Mansour, direttore delle comunicazioni della Tax Justice Network, afferma che secondo le regole dell’OCSE l’imposta minima effettiva del 15% si applicherebbe solo alle aziende con un fatturato annuo di almeno 750 milioni di euro (750 milioni di franchi), corrispondenti a circa 200 aziende con sede nel Paese e duemila filiali di attività straniere.
Il 99% delle aziende svizzere, quindi, non subirebbe alcun cambiamento. Sarebbe stato meglio se “la Svizzera avesse imposto una base di tassazione federale aggregata del 15%”, dice Mansour.
Domink Gross, responsabile delle politiche fiscali della ONG svizzera Alliance Sud, è convinto che il 15% non sia sufficiente. Una coalizione di gruppi della società civile che include Alliance Sud, di concerto con gli Stati Uniti, ha chiesto a gran voce un’aliquota più vicina alla media globale del 25%, in modo da scoraggiare le aziende dal trasferire i propri profitti in cerca di una tassazione più bassa.
“Un’aliquota del 15% non è un incentivo sufficiente a cambiare sede di produzione. Finché ci saranno differenze rilevanti tra la quantità di tasse o le aliquote pagate dalle aziende nei diversi Paesi, queste continueranno a spostare i propri profitti”, ha spiegato Gross.
Le linee guida per l’implementazioneCollegamento esterno (o regole GloBE) pubblicate lo scorso febbraio, poi, non eliminano alcuni dei regimi fiscali speciali che in Svizzera avvantaggiano le holding, come gli sgravi fiscali sui dividendi o sulle plusvalenze. Inoltre, alcuni settori, come il mercato delle materie prime o i trasporti merci, godranno di particolari proroghe, soprattutto se il Governo elvetico porterà avanti l’idea di una tassa sul tonnellaggio, per tassare le aziende in base alla loro capacità di carico anziché sui profitti.
Potrebbero esserci delle migliorie anche in termini di trasparenza, dice Mansour. La Svizzera ha firmato trattati con circa 90 Paesi per lo scambio automatico di informazioni fiscali, ma la segretezza nel settore finanziario e in termini di beneficiari effettivi è ancora elevata. Inoltre, le aziende non hanno nessun obbligo di rendere pubbliche le proprie dichiarazioni dei redditi nei singoli Paesi, per cui è difficile valutare il livello effettivo di evasione fiscale.
I vantaggi della nuova aliquota
Chi critica la nuova aliquota prende di mira anche le nuove disposizioni delle regole GloBe, pensate per tranquillizzare Paesi dalla tassazione ridotta come Svizzera, Irlanda e Paesi Bassi, i quali considerano una minaccia l’introduzione di una tassazione più elevata, poiché ne diminuirebbe le attrattive agli occhi delle multinazionali.
Le regole includono un’esclusione basata sulla sostanza economica che consente alle aziende di detrarre dall’imponibile una parte dei costi legati alle risorse e alle spese del personale. Il carico fiscale viene quindi ridotto, sempre che le società in questione esercitino un’effettiva attività commerciale nel Paese.
Per raggiungere l’aliquota del 15%, l’OCSE consente di ricorrere alla cosiddetta “top-up tax”, cioè a quella che il Governo svizzero chiama imposta differenziale, applicata sui profitti in eccesso quando l’aliquota base è inferiore alla tassazione minima. Per fare un esempio, se un’azienda paga l’11% di imposte a Zugo, dovrà aggiungere un supplemento del 4% sui profitti realizzati.
I proventi derivati da questa tassa supplementare possono essere utilizzati liberamente. Alcuni Cantoni hanno già accennato che intendono usare il denaro per fornire sussidi alle multinazionali, in modo da compensare la perdita di attrattiva data dall’aumento della tassazione.
Sebbene si tratti di uno dei fattori che ha fatto sì che l’accordo venisse accettato anche da chi si schiera con le aziende, sostenitori e sostenitrici di una tassazione più equa ribadiscono che simili misure vanno ad invalidare lo scopo dell’aliquota minima, cioè quello di mettere tutti sullo stesso piano.
“Così facendo, l’imposta minima sui redditi delle società viene trasformata in un programma premio per paradisi fiscali”, scrive Gross di Alliance Sud in un recente postCollegamento esterno, suggerendo invece di fare in modo che i proventi vengano utilizzati per finanziare progetti sociali. “Il grosso problema di questa riforma è che saranno i Paesi come la Svizzera, che finora hanno favorito la gara al ribasso offrendo i migliori incentivi per il trasferimento dei profitti, a ottenere quasi tutti i proventi aggiuntivi dati dall’imposizione dell’aliquota minima”.
Altre giurisdizioni a tassazione ridotta, tra cui le Bermuda, stanno accarezzando l’ideaCollegamento esterno di usare tali proventi per aumentare la propria competitività, per esempio abbassando le imposte sul personale o i dazi doganali.
Un altro tipo di paradiso
La Svizzera può ancora essere definita un paradiso fiscale? La risposta dipende dai punti di vista. Secondo esperti ed esperte, se firmerà l’accordo il Paese elvetico rimarrà comunque un territorio a tassazione ridotta ma, contrariamente a qualche decennio fa, sarà sempre più in linea con i regolamenti internazionali, che in parte ha contribuito a plasmare tramite organizzazioni come l’OCSE.
Tali regolamenti contribuiranno a orientarlo verso una politica fiscale in grado di favorire la proliferazione di attività commerciali sul territorio, al posto di semplici società di comodo che non cercano altro che una tassazione più leggera e delle autorità che facciano poche domande.
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Un indubbio progresso, almeno secondo Kurt Schmidheiny, esperto in concorrenza fiscale dell’Università di Basilea. L’accordo ridurrà “l’attrattiva della Svizzera per liberi capitali e profitti stranieri, riducendo l’erosione della base imponibile nei Paesi con una tassazione più elevata”.
I maggiori contribuenti svizzeri sono già grandi multinazionali che hanno i propri dipartimenti di ricerca e sviluppo, amministrazione e produzione nel Paese, come Nestlé, Novartis, Holcim e Roche.
“La concorrenza fiscale non è un male. L’imposizione di un’aliquota minima globale non la fermerà, anche se certo contribuirà a ridurla”, ha affermato Bunn. Ma chi “spera in una tassazione maggiore e in minori incentivi a competere per gli investimenti non potrà essere soddisfatto delle riforme svizzere”.
Traduzione: Camilla Pieretti
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