La tegola di Credit Suisse punta i riflettori sui rischi finanziari per le banche
L’esposizione ai disastri creditizi di Greensill e Archegos, nei quali Credit Suisse aveva investito ingenti capitali, ha rivelato che anche le banche prendono abbagli colossali. A seguito della vicenda, gli enti regolatori e i politici hanno iniziato a valutare quali passi falsi abbia fatto l’istituto di credito elvetico e a chiedersi come meglio tutelare in futuro gli investitori da errori di valutazione dei rischi.
Gli esperti puntano il dito contro le carenze dei sistemi di gestione del rischio e affermano che occorre rivedere la cultura aziendale.
Ad aprile, il tracollo della società statunitense di gestione patrimoniale Archegos Capital Management è costato circa 5 miliardi di dollari (4,5 miliardi di CHF) a Credit Suisse. Non dimentichiamoci, però, che nel frattempo il secondo istituto di credito più grande della Svizzera si affannava già a restituire agli investitori quasi 10 miliardi di dollari andati in fumo con i prestiti a Greensill Capital, la società di investimento diventata insolvente.
Le perdite subite da Credit Suisse avevano determinato un trimestre in negativo e l’avevano costretta a trovare in tutta fretta 1,8 miliardi di franchi da usare quale riserva di capitale per assorbire le perdite. Inoltre, sembra che la banca elvetica si stesse preparando a intentare causa al gigante giapponese SoftBank, il più grande investitore di Greensill.
La reputazione di Credit Suisse ne ha risentito parecchio: la vicenda l’ha addirittura costretta a un rimpasto dei vertici e a mettere in questione l’approccio a questo tipo di attività. Visto il mercato altamente competitivo nel quale opera, ora l’istituto di credito si ritrova a dover convincere gli investitori che, nonostante tutto, rimane un partner affidabile per la gestione patrimoniale.
António Horta-Osório, il nuovo direttore, ha affermato che “ci attende una serie di decisioni difficili”.
Campanelli d’allarme
Andreas Ita, socio dirigente di Orbit36, società di consulenza zurighese per la gestione dei rischi, ritiene che entrambi gli investimenti comportassero rischi complessi che, però, potevano essere soppesati con maggior precisione.
Ita delinea tutta una serie di eventuali carenze nella gestione dei rischi, tra cui analisi di stress test non consone, l’utilizzo degli incentivi errati nei sistemi di indennizzo e lo sfasamento potenziale tra i dipendenti che eseguono le operazioni e i direttori. In un’intervista a SWI swissinfo.ch ha rivelato che “troppo spesso il ragionamento è il seguente: ‘abbiamo adottato modelli per la gestione dei rischi, quindi basta tenere d’occhio le cifre e andrà tutto alla grande’”.
I nodi di questo approccio, però, vengono al pettine quando si investe in hedge fund, società di gestione patrimoniale e altre realtà del cosiddetto “sistema bancario ombra”, un segmento caratterizzato da una regolamentazione più scarsa, soprattutto quando i bassi tassi di interesse pregiudicano i profitti di base negli investimenti più tradizionali e costringono le banche a trovare nuove fonti di reddito.
“Nel caso di contratti stipulati con un ente standard, monitorare e controllare i rischi è una passeggiata. Le cose si fanno molto più complicate con gli investimenti meno tradizionali, che spesso sono meno regolamentati”, ci spiega Angelo Ranaldo, professore di finanza e rischi sistemici all’Università di San Gallo.
Andreas Ita teme che, rispetto ad altri paesi, la Svizzera sia in ritardo sul rispetto delle normative in materia di analisi di stress test, che consentono di rilevare i punti deboli delle operazioni di borsa. A tal proposito, ha affermato: “Forse non è un caso che nessuna grande banca europea sia stata colpita e che quelle statunitensi abbiano ottenuto risultati migliori. Negli ultimi anni, infatti, in queste giurisdizioni sono stati adottati quadri giuridici completi sugli stress test per le banche di grandi dimensioni”.
Inoltre, l’ex banchiere di UBS ha rivelato che la gestione del rischio è diventata fin troppo burocratica e ha portato alla creazione di una “cultura basata sulla paura” tra gli istituti di credito. “Si corre il pericolo di prestare fin troppa attenzione ai minimi dettagli, a discapito di una visione più ampia e di un pensiero più originale.”
“Le banche devono promuovere un dialogo aperto e incentrato sul rischio, non lasciare che i responsabili del rischio diffondano la paura tra gli operatori con fogli di calcolo infiniti. Purtroppo, invece di gestire i rischi, tendiamo sempre di più ad amministrarli.”
L’autorità di vigilanza del mercato finanziario svizzero (FINMA) si è messa a indagare il guaio in cui si è cacciata Credit Suisse, che è accusata di aver ignorato più di un centinaio di campanelli d’allarme. FINMA ha intimato all’istituto di credito di adottare una serie di “misure di riduzione del rischio”, tra cui l’annullamento dei bonus del personale.
Una commissione parlamentare pluripartitica si è riunita appositamente per analizzare la questione, senza però raggiungere un consenso su come procedere. In una dichiarazione al giornale Finanz und Wirtschaft,Collegamento esterno Thomas Matter dell’Unione Democratica di Centro, partito di destra elvetico, ha affermato: “Siamo già intervenuti pesantemente in passato e imposto gravi oneri alle banche”. Gli errori commessi da Credit Suisse, ha aggiunto, “non comportano necessariamente regole più ferree per tutti”.
Un cambiamento culturale
Il Partito Socialista Svizzero la pensa diversamente e si è impegnato a portare la questione in Parlamento, dove intende passare al pettine la cultura dei bonus e vagliare l’eventualità che occorra potenziare i poteri di vigilanza e l’applicazione delle normative.
Ranaldo, però, mette in guardia dall’adottare misure generalizzate e impulsive. “Alle volte, le norme hanno conseguenze indesiderate. Se un ente regolatore intima alle banche di accantonare maggiori quantità di capitale per tutelarsi dai rischi, gli istituti di credito potrebbero assumersi più rischi per controbilanciare i costi legati al rispetto delle norme.”
Aggiunge che una soluzione più efficace prevede che gli enti regolatori di vari paesi migliorino le comunicazioni per individuare con maggior precisione dove si celano veramente i rischi nelle complicate operazioni transfrontaliere.
Secondo lui, una soluzione potrebbe essere il potenziamento della vigilanza normativa di enti specifici. “Le banche con autorizzazione devono comunicare quotidianamente le posizioni di negoziazione, detenere riserve patrimoniali, fornire relazioni sulla remunerazione e dimostrare di avere i rischi sotto controllo. Le altre entità (non banche), come per esempio gli hedge fund, non sono soggette a molti di questi requisiti normativi.” Resta da vedere se gli enti regolatori e i politici riterranno il disastro di Credit Suisse una serie isolata di errori di una banca o un sintomo della debolezza del quadro di regolamentazione del sistema finanziario.
Horta-Osório non si illude e ha ben chiara la portata enorme del compito. Il 30 aprile, a seguito della nomina, ha dichiarato: “Dobbiamo promuovere una cultura che sottolinea l’importanza della gestione dei rischi, garantisce la presenza degli incentivi giusti, anche sulla retribuzione, e mette a fuoco la responsabilità e gli obblighi personali”.
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