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Lugano, l’acciaio e la guerra

acciaieria
Dave Mustaine/Keystone

Il Ticino è un importante centro mondiale del commercio di prodotti siderurgici dall’Europa dell’Est. Il conflitto in Ucraina e le sanzioni contro la Russia stanno avendo un forte impatto sulla piazza commerciale di Lugano.  

Manno, periferia di Lugano. In un anonimo stabile commerciale ha sede la Severstal Export Gmbh, una società che esporta e commercia prodotti siderurgici. Le sue azioni sono controllate dalla Severstal, colosso dell’acciaio russo nelle mani di Aleksej Mordashov. Un oligarca che, nel 1992, a 26 anni, era diventato il direttore finanziario della società. Oggi guida un impero minerario, bancario e televisivo e nel 2021 è stato, secondo Forbes, l’uomo più ricco di Russia.

Mordashov è finito a inizio marzo nella lista delle persone sanzionate dall’Unione europea (UE). Il motivo? “Sta beneficiando dei suoi legami con i dirigenti russi” si legge nella motivazione ufficialeCollegamento esterno . In Ticino, Severstal non commenta, ma la sua situazione è potenzialmente molto difficile: la Svizzera ha ripreso tutte le sanzioni dell’UE e ora, per la Segreteria di stato dell’economia (SECO), i fondi e le risorse economiche posseduti o controllati da individui, società o entità finite in queste liste nere sono da bloccare. 

La guerra in Ucraina e le sanzioni nei confronti della Russia hanno raggiunto le rive del lago Ceresio e stanno creando subbuglio nella discreta piazza delle materie prime ticinese. Soprattutto per chi, e sono in tanti, è specializzato nel commercio di prodotti siderurgici con i due Paesi dell’oriente europeo. 

“Il 24 febbraio 2022 sarà una data che farà la storia, più dell’11 settembre, con conseguenze ancora imprevedibili; per i molti che qui a Lugano fanno affari nell’acciaio con Russia e Ucraina significa la paralisi totale”, dichiara a SWI swissinfo.ch il dirigente di una società attiva nel commercio di acciaio che preferisce non essere citato. Un quadro simile a quello che dipinge Marco Passalia, segretario della Lugano Commodities Trading Association (LCTA), l’associazione che raggruppa le persone che commerciano con le materie prime, e che parla di “navi ferme, linee di credito bloccate e società sull’orlo del fallimento”. 

Riunione di crisi 

L’acciaio è una materia prima strategica. In Russia significa potere: diversi tra i più importanti membri dell’oligarchia controllano le principali acciaierie, grazie alle quali hanno accumulato fortune colossali. Il 15 marzo, l’Europa ha deciso quindi di vietare l’esportazione dei prodotti siderurgici russi. Poco dopo, a Lugano, si è tenuta una riunione di crisi tra vari membri della comunità legata al commercio.

La situazione è considerata drammatica: “Per alcuni giorni ha prevalso il panico e non si sapeva come muoversi. Da un lato mancavano linee guida chiare da parte delle autorità svizzere, dall’altro per molte persone vi è tuttora il rischio che i contratti non possano più essere onorati. È facile immaginare cosa questo possa significare”, racconta Marco Passalia, segretario della LCTA e coordinatore dell’incontro.  

Passalia, lui stesso dirigente di una società di commercio energetico, ritiene che siano tre i punti particolarmente critici. Le restrizioni dei crediti bancari, già parzialmente adottate prima dello scoppio della guerra, sono al primo posto. “Molti istituti bancari avevano bloccato il finanziamento di molte materie prime russe, a eccezione del gas e del petrolio, già prima del conflitto”, dichiara Passalia. Vi sono poi le sanzioni e la loro verifica, che richiede molto lavoro, e le problematiche logistiche legate al confitto, afferma. 

Per chi opera con l’Ucraina i problemi sono direttamente legati alla guerra: gran parte delle fabbriche sono nell’Est del Paese e sono bloccate o hanno riconvertito la produzione, senza contare che i porti sono chiusi e dalla martoriata Mariupol non parte più nulla. Chi si interfaccia con la Russia, oltre ad altre difficoltà nel trovare navi che partano dai porti, deve invece stare attento alle sanzioni, dal momento che, settimanalmente, nuovi nomi finiscono nella lista delle persone sanzionate e a cui congelare i beni.  

Altri sviluppi

Chi è sanzionato e chi no 

Lo scorso 15 marzo nella lista nera europea e svizzera è comparso anche Viktor Rashnikov, proprietario del colosso siderurgico MMK, considerata dall’UE e dalla SvizzeraCollegamento esterno una “fonte di reddito per il governo della Federazione russa”. La notizia è subito arrivata in Ticino dove, dal 2002, ha sede la filiale commerciale MMK Steel Trading. Contattata, l’azienda non vuole rilasciare dichiarazioni. Ma la situazione sembra difficile perché le sanzioni prevedono anche il blocco dei beni controllati dalle persone in lista nera attraverso delle società. Ciò significa che i conti della MMK possono essere stati segnalati e bloccati da parte delle banche svizzere. 

Viktor Rashnikov
Il presidente del consiglio di amministrazione di Magnitogorsk Steel (MMK), Viktor Rashnikov. AFP

Il problema, però, non riguarda solo chi è stato sanzionato. A Lugano la Russia è di casa. Qui hanno sede altre società che commerciano acciaio (ma anche carbone, nichel o petrolio) e che operano con materie prime d’origine russa o hanno come azionisti dei cittadini o delle cittadine di nazionalità russa, pur non essendo controllate da persone sottoposte a sanzioni. Pensiamo ad esempio all’antenna di trading della NLMK, un colosso siderurgico nelle mani del discreto oligarca Vladimir Lisin. In Ticino dal 2007, NLMK Trading ha una quota di oltre il 30% delle esportazioni d’acciaio russo. È inevitabile, quindi, che tutte queste aziende risentano della situazione e siano bloccate. 

Ce lo conferma Marco Micciché, amministratore delegato di Eusider Trading, una società che commercializza acciaio e materie prime per la produzione siderurgica: “Anche chi non è direttamente toccato dalle sanzioni, ma ha a che fare con la Russia è in grande difficoltà perché le banche applicano una sorta di embargo totale. Noi siamo attivi in altri Paesi e non tocchiamo più nulla che abbia a che fare con la Russia. Il rischio in termine di conformità è troppo alto”.  

Vladimir Lisin
Vladimir Lisin, presidente del consiglio di amministrazione di Novolipetsk Steel, una delle più grandi aziende russe produttrici di acciaio, parla al convegno dell’Unione russa degli industriali e degli imprenditori (RSPP), nel 2018. AFP

Micciché spiega che la situazione attuale ha tuttavia prodotto un aumento della domanda di acciaio per società come la sua, specialmente per via del blocco dell’offerta dai Paesi in guerra. “L’industria europea ha bisogno in continuazione di nuovo acciaio e anche per questo i prezzi sono schizzati alle stelle”, afferma. 

Centro mondiale dell’acciaio 

Meno noto rispetto a quello di Ginevra e di Zugo, quello ticinese è il terzo centro di commercio della Svizzera. La particolarità dell’hub di Lugano è quella di essersi specializzata nel commercio di acciaio. Sulle 123 società che commerciano in materie prime registrate in Ticino, 51 sono specializzate nel commercio di minerali e metalli.

Queste aziende impiegano 575 persone su quasi mille assunte nell’intero settore ticinese che, secondo le stime della rappresentanza di categoria, pesa il 2% del PIL cantonale e genera un gettito fiscale di circa 70 milioni di franchi annui. È chiaro, dunque, che l’attuale situazione dia spazio a grosse preoccupazioni tra gli addetti e le addette ai lavori: “Almeno 15 società legate a doppio filo con la Russia e l’Ucraina vedono oggi le loro attività paralizzate e temono molto per la perdita di posti di lavoro”, Passalia spiega a SWI swissinfo.ch.  

Lo sviluppo dell’hub di Lugano lo si deve anche al ruolo di Duferco, considerata una delle principali aziende che commerciano in acciaio nel mondo, la quale è attiva in riva al Ceresio sin dagli anni ’80.  Oggi Duferco, la cui holding DITH si trova in Lussemburgo, è controllato dal colosso cinese Hebteel, terzo produttore mondiale di acciaio. Nel 2021, la DITH ha realizzato 255 milioni dollari di utili, in buona parte provenienti da Lugano, da dove la società commercializza ogni anno circa 13,5 milioni di tonnellate di acciaio e metalli ferrosi. Una quota che corrisponde a grandi linee a ciò che produce annualmente un Paese come la Francia. 

Dal Donbass al Ticino 

Una quota di minoranza (21,5%) del capitale della DITH è ancora detenuta dalla vecchia proprietà italiana guidata dal fondatore Bruno Bolfo. Questo manager, che oggi controlla altre aziende della piazza luganese, è stato uno dei primi a farsi strada nei Paesi dell’Europa orientale. Negli anni selvaggi successivi al crollo dell’Unione Sovietica, Bolfo ha stretto accordi in Russia e Ucraina dove è stato per anni il rivenditore esclusivo dei prodotti delle Unioni industriali del Donbass, colosso siderurgico di Donetsk.  

Da allora il nome di Lugano ha acquisito importanza agli occhi di chi produce acciaio nell’Europa orientale. Oltre all’oligarchia russa, anche quella ucraina ha stabilito filiali commerciali in Ticino. Citiamo ad esempio la Interpipe di Viktor Pinchuk uno degli uomini più ricchi e influenti dell’Ucraina. Leader mondiale nella produzione di tubi e di ruote ferroviarie, Interpipe controlla due società a Paradiso, comune vicino a Lugano. 

A Lugano si è stabilito anche personale specializzato di origine ucraina. È il caso di Sergiy Dynchev. Dopo avere lavorato per diversi anni a Ginevra per Metinvest, il più grande produttore ucraino d’acciaio, è arrivato in Ticino. Oggi è il direttore di Ivancore, una società specializzata nel commercio siderurgico: “Lugano è una città fiscalmente meno attrattiva rispetto ad altri centri svizzeri, ma che piace molto agli europei dell’Est, anche per il suo clima, la sua mentalità e la vicinanza con l’Italia”.  

Dynchev illustra un altro problema che tocca oggi il settore: “Le banche, oltre ad aver bloccato i finanziamenti legati alla Russia, richiedono maggiori coperture sui crediti a causa degli sbalzi di valore delle quotazioni delle materie prime. Diversi commercianti devono così indebitarsi di più e sono quindi alla ricerca di denaro”. Nel concreto, chi commercia rischia di risultare insolvente di fronte a un’imprevista variazione dei prezzi. Basti pensare che dopo l’intervento russo una tonnellata di rotoli di acciaio laminato è passata da 600 a 1’400 dollari e la lamiera pesante da 650 a quasi 2’000 dollari a tonnellata. 

Al di là di tutto questo, però, le preoccupazioni per il direttore di Ivancore sono altre: “Ho la mia famiglia a Mariupol e stiamo vivendo delle ore molto difficili. Ogni giorno cerco di mettermi in contatto con loro per avere notizie. È una situazione davvero drammatica”, conclude il manager originario di Mariupol. Una città diventata simbolo di una guerra la cui onda d’urto è arrivata anche a Lugano. 

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