Soia sostenibile, la Svizzera è pioniera ma non ancora rivoluzionaria
La Svizzera è la culla dell'industria sostenibile della soia, ma il suo impatto rischia di essere limitato, a meno che le sue multinazionali non si diano da fare in questo senso.
Il 2020 passerà alla storia per le ragioni sbagliate. Tuttavia, ha portato con sé aspetti positivi nel settore della sostenibilità svizzera. La Rete svizzera per la soia, creata per assicurare la sostenibilità dell’industria della soia, celebra i 10 anni di esistenza.
La storia comincia però ancora prima, nel 2004, quando la catena di supermercati Coop si allea con WWF Svizzera e ProForest per sviluppare i Criteri di Basilea per una coltivazione responsabile della soia. È la prima volta che vengono definiti i requisiti minimi che caratterizzano una produzione di soia responsabile da un punto di vista ambientale, sociale ed economico.
È un momento significativo per il movimento a favore della sostenibilità perché la produzione di soia in quegli anni si sta espandendo rapidamente in tutto il mondo con pochi scrupoli per la deforestazione, i diritti territoriali e l’uso dei pesticidi. La crescente consapevolezza dei consumatori e l’attivismo ambientale spingono dunque i produttori e le aziende a cambiare narrativa.
“Le compagnie responsabili che acquistano soia e suoi derivati vogliono essere sicure di non contribuire negli aspetti negativi, mentre i produttori responsabili hanno bisogno di un meccanismo che permetta di dimostrare ai clienti di essere tali”, spiega il rapporto del 2004.
I Criteri di Basilea portano poi alla creazione della Tavola Rotonda per la Soia Responsabile (RTRS) a Zurigo nel 2006. Lo stesso anno, il primo carico di 1’000 tonnellate di farina di soia certificata è importato in Svizzera. Nel 2010 nasce la Rete svizzera per la soia che oggi conta 29 membri tra cui i distributori Migros, Coop, Denner, Lidl, l’Unione svizzera dei contadini, l’Associazione svizzera dei fabbricanti di foraggio VSF e WWF Svizzera.
Alzare l’asticella
I dati pubblicati questo mese dalla Rete mostrano che nel 2019 la Svizzera ha importato 260’000 tonnellate di fagioli di soia. La metà proveniva dall’Europa, il resto dal Brasile. Circa il 95% delle importazioni di soia provengono da coltivazioni sostenibili, secondo l’associazione.
Uno studio commissionato dall’Ufficio federale dell’ambiente e svolto dall’Alta scuola di Berna per le scienze agrarie e alimentari HAFL ha dimostrato che i Criteri hanno avuto un impatto positivo. Gli standard di sostenibilità elaborati da ProTerra e la RTRS, si legge, assicurano che la soia importata in svizzera proviene da luoghi senza deforestazione, condizioni di lavoro problematiche o conflitti con le comunità locali.
Secondo lo studio, i produttori e le compagnie agricole internazionali hanno accolto la richiesta di soia sostenibile della Svizzera a cui offrono fagioli di soia certificati e non modificati geneticamente.
Questo mostra come la Confederazione può influenzare la filiera globale nonostante il suo piccolo mercato, dicono i ricercatori. Consigliano alla Rete di sviluppare ulteriormente gli standard e di condividere l’esperienza con gli operatori europei del settore per fare in modo che la soia certificata e sostenibile sia più ampiamente riconosciuta.
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Critiche
Non tutti però credono che davvero il 95% della soia importata in Svizzera venga da coltivazioni sostenibili.
“È improbabile – magari non il dato in sé, ma la definizione stessa di sostenibilità o i suoi criteri”, dice Silvie Lang, specialista di materie prime dalla ong svizzera Public Eye.
Una critica è che la RTRS offre due opzioni per la soia sostenibile certificata: bilancio di massa e segregazione. Quest’ultima è la certificazione “premium” e impone che la soia sostenibile resti separata da quella convenzionale dalla fattoria al prodotto finale.
La certificazione bilancio di massa è un’opzione meno severa. In questo caso la soia sostenibile e non sono mischiate ma rivendute nelle corrette proporzioni. Non è chiaro che percentuale delle importazioni svizzere ricada sotto questa categoria.
Un’altra critica, menzionata anche nello studio, sono i pesticidi. Secondo Lang, gran parte dei pesticidi in Brasile è usata nei campi di soia, granoturco e canna da zucchero. Nel 2017 i prodotti per trattare la soia rappresentavano il 52% del totale dei pesticidi venduti nel Paese. Il Paquarat, un pesticida particolarmente nocivo proibito in oltre 50 Paesi è vietato anche dalla RTRS, ma una clausola dello standard di certificazione permette eccezioni.
“Fino a che il Paquarat e altri pesticidi altamente pericolosi saranno permessi in seno alla RTRS, la soia non potrà essere considerata sostenibile”, dice Lang.
C’è anche qualche scetticismo sull’affermazione dello studio secondo la quale la domanda svizzera di soia sostenibile influenza la filiera globale. Lang ritiene che tutto si riassuma nelle pressioni dell’Unione Europea, che ha significativamente più potere d’acquisto della Confederazione.
Tuttavia, la Svizzera avrebbe l’opportunità di fare la differenza facendo in modo che le multinazionali elvetiche che lavorano nel settore delle materie prime – e commerciano con milioni di tonnellate di soia nel mercato globale – insistano maggiormente sulla soia sostenibile.
“La Svizzera è uno dei più grandi, se non il più grande, centro per il commercio delle soft commodities (le materie prime coltivate, ndr). La sua influenza sulle materie prime sostenibili potrebbe essere molto, molto più grande che quella ottenibile con le importazioni”, dice Lang.
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