Franco forte: lavorare di più o guadagnare di meno?
Da quando il franco si è apprezzato, le industrie svizzere hanno trasferito all'estero migliaia di posti di lavoro. Per salvaguardare gli impieghi in Svizzera, i sindacati sollecitano l'indebolimento della valuta elvetica. Molte aziende reagiscono con l'aumento delle ore lavorative. Ma anche i tagli salariali non dovrebbero essere un tabù, nemmeno per i dirigenti, dice un imprenditore.
L’elenco delle industrie che negli ultimi mesi hanno smantellato posti di lavoro in Svizzera continua ad allungarsi. Della maggior parte delle soppressioni di impieghi nelle piccole e medie imprese (PMI) non si parla nei media. Ma a parlare sono le cifre: nell’industria meccanica, elettrotecnica e metallurgica (MEM) il numero dei dipendenti nel primo semestre 2015 è diminuito di 7’000 unità, secondo l’Ufficio federale di statistica.
Quale motivo dei tagli di impieghi, la maggioranza delle aziende indica l’impatto dell’impennata del franco all’inizio di quest’anno. Il 15 gennaio la Banca nazionale svizzera (BNS) ha infatti abbandonato il mantenimento della soglia minima di cambio di un franco e 20 centesimi per un euro. Il corso è così precipitato a un franco e 5 centesimi.
Il mercato del lavoro perde punti
Febbraio 2015: l’acciaieria Jakem chiude lo stabilimento a Münchwilen, nel cantone di Argovia. 80 posti di lavoro industriali scompaiono.
Marzo 2015: la Bernex Bimetall AG, con sede a Olten, trasferisce la produzione di parti speciali per l’industria delle materie plastiche nella Repubblica ceca. Nella città solettese vanno persi 51 posti.
Aprile 2015: il gruppo industriale Pfisterer prevede di sopprimere 110 posti a Malters (Lucerna) e Altdorf (Uri) di delocalizzare nella Repubblica ceca.
Marzo 2015: il produttore di apparecchi acustici Sonova trasferisce parte della produzione di Stäfa (Zurigo) in Cina e in Gran Bretagna. Nel cantone di Zurigo sono tagliati 100 posti di lavoro.
Aprile 2015: la società di manutenzione aeronautica, SR Technics apre un centro di servizi a Belgrado ed elimina 250 posti a Zurigo.
Giugno 2015: Arbonia Forster trasferisce 320 posti di fabbricazione di porte e finestre dal Lago di Costanza e dal cantone di Vaud in Slovacchia e Germania orientale.
Ottobre 2015: la società di macchinari Rieter smantella 150 posti di lavoro a Winterthur.
Novembre 2015: la fabbrica di imballaggi Tetra Pak decide di chiudere il suo sito produttivo a Romont, nel cantone di Friburgo, e di delocalizzare 123 posti di lavoro all’estero.
10 novembre 2015: la Sia Abrasives di Frauenfeld, che fa capo al gruppo tedesco Bosch, annuncia che cancellerà 260 dei 720 posti di lavoro nel capoluogo turgoviese per trasferirli in Germania e nell’Europa orientale.
“Così i prezzi dei prodotti svizzeri sul mercato europeo sono saliti di quasi il 20 per cento da un momento all’altro”, afferma Ivo Zimmermann, responsabile della comunicazione presso l’associazione di categoria Swissmem. Il settore esporta quasi l’80 per cento della produzione, di cui circa il 60 per cento nell’Eurozona. Il calo dei costi delle materie di fabbricazione importate compensano solo una parte dell’aumento dei prezzi valutari.
“Le aziende hanno dovuto agire e lo hanno fatto”, dice Zimmermann. Più dei tre quarti delle aziende associate intervistati lo scorso luglio da Swissmem hanno dovuto abbassare i prezzi, al fine di non essere escluse dal mercato. Per un’impresa su tre, i margini si sono ridotti a tal punto che si attendono di chiudere l’esercizio corrente con una perdita.
Padiglioni vuoti
“Nessuna statistica mostra ancora quello che oggi sta realmente accadendo nelle medie industrie manifatturiere”, avverte Michael Girsberger. Il CEO del fabbricante bernese di mobili Girsberger Holding SA parla di uno “sconvolgimento di grande portata” e dice di aspettarsi “un significativo aumento della disoccupazione”.
Per poter essere redditizie, per molte imprese la delocalizzazione all’estero di posti di lavoro con salari elevati è inevitabile. “Chi dispone già di stabilimenti di produzione all’estero, li amplifica, chi non ne ha ancora, li costruisce”. Girsberger stesso ha recentemente delocalizzato dodici posti nella sua filiale tedesca.
Dalla decisione della BNS sul tasso di cambio di nove mesi fa, il numero di padiglioni di fabbriche ormai vuoti in Svizzera si è moltiplicato, perché interi reparti sono stati trasferiti in Germania, Francia, Europa dell’Est o in Asia, racconta Girsberger, che lo ha saputo dai dirigenti di altre industrie. “Una volta che sono stati smantellati, i posti di lavoro non ritorneranno”.
Anche l’associazione di categoria constata un trasferimento di posti di lavoro all’estero. Le industrie MEM svizzere hanno costantemente aumentato i propri effettivi all’estero negli ultimi anni, raggiungendo 560mila posti di lavoro. Questo sviluppo non è una novità, riconosce Ivo Zimmermann. Ma la decisione della BNS ha accelerato il cambiamento strutturale. “Sempre più aziende devono chiedersi quali attività industriali sono ancora economicamente praticabili in Svizzera. Alcune attività non rientrano in questa categoria”, rileva il portavoce di Swissmem.
Come può essere fermata la perdita di posti di lavoro nel settore industriale elvetico? “Affinché i prodotti provenienti dalla Svizzera possano essere competitivi, si devono ridurre i costi”, afferma Michael Girsberger. In altri termini: o aumentare le ore lavorative o abbassare gli stipendi. Per l’imprenditore bernese, “un prolungamento della settimana lavorativa fino a 45 ore per la stessa paga è imprescindibile”.
Secondo Swissmem, effettivamente nel 2015 almeno 70 aziende del settore hanno introdotto temporaneamente tempi di lavoro più lunghi per lo stesso stipendio. E ciò con il consenso delle commissioni interne del personale, sottolinea Ivo Zimmermann.
Di queste misure, il responsabile del settore industria del sindacato Unia e parlamentare socialista Corrado Pardini non ne vuole assolutamente sapere. “Riduzioni salariali aggraverebbero il problema. La conseguenza sarebbe un calo della domanda interna, la quale attualmente mantiene ancora stabile l’economia”.
Ma anche Pardini si aspetta una disoccupazione crescente e “danni economici irreversibili perché ora vengono sconsideratamente messi in gioco e trasferiti all’estero posti di lavoro ad alto valore aggiunto”. Il sindacalista imputa la responsabilità alla BNS e le chiede di correggere l'”errore capitale” del 15 gennaio, al fine di eliminare la “concorrenza sleale per l’industria di esportazione” che ne è derivata. “Tutte le altre banche centrali tutelano gli interessi dell’economia dei loro paesi. Solo la BNS al momento non lo fa”, critica Pardini.
Dal canto suo, il padronato non chiede alcuna nuova soglia minima del corso del franco, ma si aspetta dalla BNS, “che rimanga attiva e utilizzi i suoi strumenti, al fine di indebolire il franco”, dichiara Ivo Zimmermann.
Rispondendo a swissinfo.ch, la BNS precisa di essere consapevole della difficile situazione internazionale e fa trasparire di essere pronta a intervenire nel mercato valutario per indebolire il franco svizzero. “Entrambi i pilastri della politica monetaria corrente, ossia il tasso d’interesse negativo e la disposizione di essere attivi nel mercato valutario, serve a ridurre la notevole sopravvalutazione del franco svizzero e a garantire la stabilità dei prezzi a lungo termine”, scrive.
Cifre aziendali sul tavolo
In attesa di condizioni più favorevoli sul fronte valutario, le società interessate devono nel frattempo affrontare una situazione difficile. “Una società sana può funzionare in perdita per un periodo di tempo limitato, ma non nel lungo termine”, puntualizza Michael Girsberger.
Egli capisce che i sindacati in linea di principio non approvino una riduzione salariale temporanea o un aumento del tempo di lavoro. Ma a livello aziendale adesso si dovrebbero cercare soluzioni congiunte, rileva l’imprenditore bernese. Girsberger è convinto che sia questa la via giusta e invita entrambe le parti a un “un partenariato sociale trasparente”.
“Anche gli imprenditori devono fare un ripensamento e intraprendere tutto il possibile per godere della fiducia dei lavoratori e dei loro rappresentanti. Le cifre aziendali devono essere messe sul tavolo: non solo nei momenti di difficoltà, ma anche quando gli affari vanno bene”. A suo avviso, titolari di aziende e alti dirigenti dovrebbero dare l’esempio e “lasciarci per primi qualche penna”.
Anche se i negoziati sono a volte difficili e intensi, Girsberger afferma di aver fatto personalmente “solo esperienze molto buone” con il sindacato Unia. “Ma per questo facciamo anche molto e permettiamo ai rappresentanti sindacali di guardare senza restrizioni nei nostri libri contabili”.
Ivo Zimmermann condivide le richieste di trasparenza del produttore di mobili bernese. “Posso immaginare che in un’azienda che deve adottare provvedimenti impopolari, come aumenti di tempo lavorativo o tagli salariali, queste siano accettate più facilmente se vengono messe tutte le carte in tavola”. Del resto, le imprese assoggettate al contratto collettivo delle industrie MEM devono già rispettare determinati criteri di trasparenza per garantire che i rappresentanti dei lavoratori possano valutare se le misure siano giustificate, ricorda il portavoce di Swissmem.
(Traduzione dal tedesco: Sonia Fenazzi)
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