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Sicurezza nazionale e urna elettorale: una strana coppia nel mondo

uomo che lavora su un aereo da combattimento
Per gli elettori è troppo complicato esprimersi sugli aerei da combattimento? © Keystone / Peter Klaunzer

La Svizzera è un'eccezione quando si tratta di votare su questioni militari. Ma come dimostra l'attenzione dei media internazionali per queste votazioni, gli altri Paesi - e i loro cittadini - non sono indifferenti a questo invidiabile privilegio.

“Ci piacerebbe avere più voce in capitolo sulle nostre spese per la sicurezza nazionale”, afferma Lindsay Koshgarian del National Priorities Project, parte dell’ampia campagna #PeopleoverPentagon negli Stati Uniti.

“Non possiamo spendere soldi in bombe per uscire dalla pandemia”, dice, riferendosi a una recente decisione bipartisan del Congresso degli Stati Uniti di destinare il 53% del bilancio federale del 2021 – 733 miliardi di dollari (661 miliardi di franchi svizzeri) – all’esercito.

I media di tutto il mondo sono incuriositi da queste ricorrenti decisioni alle urne in Svizzera: ‘Battle Around Swiss fighter jet purchase plans heats up’, ‘Swiss fighter buy to hinge on the 2020 referendum’ e ‘Swiss to vote (again) on buying new jet fighters’ sono alcuni dei titoli di articoli pubblicati da siti di attualità internazionali in vista della votazione federale del 27 settembre, quando l’elettorato svizzero si esprimerà sull’acquisto di nuovi caccia militari per oltre 6 miliardi di franchi.

A dire il vero, il fatto di votare su questioni di sicurezza nazionale quali l’aeronautica militare “dovrebbe essere qualcosa di ovvio”, sostiene Matt Qvortrup, professore di scienze politiche alla Coventry University, nel Regno Unito.

Qvortrup rileva che in molti Paesi ci sono legami storici tra l’introduzione del servizio militare obbligatorio e il diritto di voto. “In Svezia, fino al 1924, gli uomini avevano diritto di voto solo se prestavano servizio militare in patria”, spiega. Anche in altri Paesi si sono tenute votazioni popolari a livello nazionale sulla questione della coscrizione militare. Tra questi: l’Islanda (nel 1916, quando il 92% ha detto no), l’Australia (1917, 54% no) e il Canada (1942, 66% sì).

In Austria, una ‘consultazione’ avviata dal governo sulla questione dell’abolizione del servizio militare obbligatorio nel 2013 ha mostrato che una maggioranza del 60% era a favore del suo mantenimento. Dieci anni prima, una proposta per indire un referendum sui nuovi jet militari aveva raccolto il sostegno di circa il 10% dell’elettorato. A differenza di quanto avviene in Svizzera, tuttavia, tali iniziative non portano automaticamente a una votazione popolare.

Stati Uniti: proposta per un referendum sulla guerra

Un altro grande sforzo per collegare la democrazia diretta alla sicurezza nazionale è avvenuto negli Stati Uniti durante il periodo tra le due guerre mondiali.

“L’argomentazione era che la gente comune, chiamata a combattere e a morire in tempo di guerra, doveva essere in grado di votare sul coinvolgimento del proprio Paese in conflitti militari”, rammenta Qvortrup.

“In Svezia, fino al 1924, gli uomini avevano diritto di voto solo se prestavano servizio militare in patria.”

Matt Qvortrup, Coventry University

Un emendamento costituzionale – il cosiddetto emendamento Ludlow – è stato discusso più volte dal Congresso. La questione centrale era di decidere se “le dichiarazioni di guerra da parte del Congresso potessero essere invalidate da un referendum nazionale”.

Tuttavia, sebbene i sondaggi d’opinione abbiano evidenziato un sostegno popolare del 75% a favore dell’emendamento, la proposta non ha mai raccolto la necessaria maggioranza dei due terzi richiesta in entrambe le camere del Congresso.

Contrariamente alle votazioni popolari sulle questioni europee – come l’imminente votazione sull’accordo sulla libera circolazione con l’UE – dove la Svizzera e i suoi vicini europei sono spesso sulla stessa lunghezza d’onda, i referendum sulla sicurezza nazionale sono una specie rara in tutto il mondo sin dagli anni Settanta (periodo durante il quale in Svizzera si è svolta più della metà delle 45 votazioni sulla sicurezza nazionale).

Un’eccezione è avvenuta nel Brasile post-autoritario: nel 2005, quasi due terzi degli elettori hanno respinto la proposta del governo dell’allora presidente Lula da Silva di vietare la vendita di armi private.

“È stato un tentativo poco convinto di impugnare uno strumento di democrazia diretta per smilitarizzare il Paese”, afferma il politologo Rolf Rauschenbach, autore di diversi testi sulla democrazia in Brasile. “Dopo questa sconfitta il partito laburista ha rinunciato a tutte le sue ambizioni di accrescere la partecipazione dei cittadini”.

Oggi il Brasile è governato da un ex militare, Jair Bolsonaro, con posti chiave di gabinetto occupati anch’essi da ufficiali dell’esercito.

una persona tra due bandiere brasiliane
Un uomo tra due bandiere brasiliane indossa una T-shirt con la scritta ‘Le persone armate non saranno mai schiavizzate’. L’immagine è stata scattata durante una manifestazione a sostegno del presidente brasiliano Jair Bolsonaro a Brasilia, il 9 luglio 2020. Copyright 2018 The Associated Press. All Rights Reserved

Controllo democratico delle forze armate

La democrazia diretta ha avuto più successo dall’altra parte del mondo, a Taiwan, dove la primissima votazione popolare nazionale concerneva anche una questione di sicurezza nazionale. Nel marzo 2004, oltre il 90% degli elettori ha approvato il ‘referendum sulla pace’ lanciato dal presidente Chen Shui-bian.

“La nostra ambizione è stata ed è ancora quella di diventare un riferimento per quanto riguarda il potere popolare in Asia.”

Michael Kau, ex presidente Taiwan Democracy Foundation

Tuttavia, poiché la partecipazione al voto è stata inferiore al 50%, il risultato è stato invalidato. Ma invece di rinunciare alle ambizioni di dare potere ai cittadini nelle principali questioni di politica nazionale, Taiwan ha continuato a rafforzare il suo kit di strumenti partecipativi.

“La nostra ambizione è stata ed è ancora quella di diventare un riferimento per quanto riguarda il potere popolare in Asia”, spiega Michael Kau, ex presidente della Taiwan Democracy Foundation. Finora, lo Stato insulare del Pacifico occidentale ha organizzato decine di votazioni nazionali ed è diventato l’emblema della vibrante democrazia nella regione, nonostante le continue sfide esterne con cui è confrontata la sicurezza nazionale.

Infine, sebbene il ricorso a strumenti di democrazia diretta per regolare le questioni di sicurezza nazionale rimanga un’abitudine quasi esclusivamente svizzera, una delle sue iniziative interne si è diffusa in tutto il mondo. Vent’anni fa, il governo svizzero ha istituito a Ginevra il Centro per il controllo democratico delle forze armate, il cui scopo è di migliorare la governance democratica nei settori della sicurezza.

Questa organizzazione internazionale conta oggi più di 60 Stati membri e – come sottolinea il suo direttore Thomas Guerber – è diventata “un pilastro vitale della pace” nel mondo. 

Traduzione dall’inglese: Luigi Jorio

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