“Abbiamo bisogno di chiarimenti dal governo al più presto”
Le piccole e medie imprese tecnologiche svizzere attive nella ricerca e nello sviluppo sono confrontate con l'incertezza finanziaria dopo il fallimento dei negoziati tra la Svizzera e l'Unione europea sull'accordo istituzionale. Alcune stanno pensando di trasferire le loro risorse e il know-how altrove.
Le incertezze riguardo alle modalità di accesso della Svizzera a Horizon Europe mettono in crisi le aziende svizzere attive nella ricerca e nello sviluppo, che dipendono fortemente dai finanziamenti di Bruxelles. La partecipazione della Svizzera al programma di ricerca dell’Unione Europea da 100 miliardi di euro (109 miliardi di franchi) è in pericolo dopo l’abbandono delle trattative per un nuovo accordo quadro che regoli le relazioni elvetiche con le 27 nazioni dell’UE. Tra i Paesi associati al programma, la Svizzera riceve attualmente la seconda più alta quota di fondi, due terzi dei quali vanno alle università.
Monique Calisti è amministratrice delegata di Martel Innovate, una società di consulting nel campo tecnologico con sede a Zurigo. Secondo lei, la situazione è particolarmente problematica per le molte piccole e medie imprese svizzere e le start-up tecnologiche che contribuiscono alla reputazione della Svizzera come epicentro d’innovazione e qualità.
Anche se i negoziati sull’accordo quadro non riguardavano specificamente la cooperazione nella ricerca tra la Svizzera e l’UE, Bruxelles potrebbe rispondere politicamente al “no deal” di Berna negandole l’accesso ai suoi fondi per l’innovazione o decidendo di integrare la Svizzera come “Paese terzo”, il che richiederebbe al Paese alpino di contribuire esso stesso con più fondi. Abbiamo parlato con Monique Calisti delle possibili conseguenze per il suo settore.
Chi è Monique Calisti?
Monique Calisti è un’imprenditrice ed esperta in innovazione digitale. È la CEO della società di consulenza tecnologica Martel Innovate, con sede a Zurigo e Lugano. Attualmente è direttrice dell’EU Next Generation Internet Outreach Office e coordinatrice del progetto europeo Next Generation Internet of Things.
SWI swissinfo: Si aspettava questo sviluppo della situazione, che l’accordo quadro sarebbe fallito?
Monique Calisti: Il fallimento dell’accordo era prevedibile, ma non ci aspettavamo una rottura così brusca. Non mi sembra un atteggiamento molto costruttivo e lungimirante da parte della Svizzera di aver chiuso in tal modo le trattative. Da una parte la Confederazione fa il muso duro, ma dall’altra ha già stanziato finanziamenti ingenti verso le UE.
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Chiaramente ci sono in gioco aspetti politici che però danneggiano l’immagine che la Svizzera proietta di sé. Non diamo l’idea di essere una nazione aperta al dialogo e all’integrazione europea. Ciò tradisce una mancanza di visione strategica, soprattutto a livello di collaborazioni che sono vitali per l’innovazione e la ricerca.
“Stiamo pensando di aprire una filiale europea e di portare una parte del nostro business e del team in un Paese dell’UE.”
Pensa che l’UE risponderà politicamente ed escluderà la Svizzera dai programmi di finanziamento della ricerca europei come Horizon Europe?
È possibile che l’UE reagisca duramente ma non credo che tagliare i ponti sia nel suo interesse. I programmi di ricerca e sviluppo sono una priorità assoluta sul tavolo di Bruxelles, per avanzare su dossier come i vaccini, la risposta alle pandemie e la ripresa economica. L’UE ha bisogno della Svizzera e delle sue istituzioni importanti come motore chiave di ricerca e innovazione. Non mi aspetto dunque una cesura netta. Dopo la Brexit, se anche la Svizzera restasse fuori dai giochi tutto lo scenario europeo ne soffrirebbe.
La Svizzera aveva rischiato anche nel 2020 di rimanere tagliata fuori da Horizon Europe, in seguito all’esito inviso a Bruxelles dell’iniziativa popolare sulla libera circolazione del 2014. Leggete di più:
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Penso che si troverà un modo di far partecipare i ricercatori e le società svizzere come la nostra a Horizon Europe e agli altri programmi, ma bisogna vedere come. Tipicamente, nel passato la Svizzera è stata ammessa o come partner associato o di un Paese terzo. Nel primo caso, i finanziamenti provengono direttamente dall’UE, nel secondo caso, invece, dal governo svizzero.
Al momento, non sappiamo ancora se saremo ammessi a partecipare come Paese associato o terzo. E qui c’è una differenza. Perché essere partner associati significa poter coordinare i progetti e avere più forza. Invece chi non è associato non è ammesso in tutti i bandi e non può dirigere i progetti.
Per questo, abbiamo bisogno di chiarimenti dalla Confederazione al più presto. Dobbiamo sapere se i partner svizzeri saranno supportati e come, anche perché le condizioni di finanziamento della Confederazione sono tipicamente diverse da quelle dell’UE, e non sempre favorevoli purtroppo.
Cosa cambia tra i finanziamenti provenienti da Berna o da Bruxelles per le piccole-medie imprese?
Se i progetti che presentiamo sono finanziati da Bruxelles, per quel che riguarda il costo del personale, possiamo dichiarare i nostri costi effettivi al 100%. Non è così nel caso dei finanziamenti provenienti dalla Confederazione, che prevedono dei tetti massimi salariali per cui è difficile recuperare interamente i costi reali in caso il personale ci costi di più. Il che è molto limitante, soprattutto per le piccole aziende.
Le grandi aziende hanno altre filiali in UE e le università godono di altre forme di finanziamento pubblico in Svizzera, mentre non esistono aiuti mirati per piccole-medie aziende tecnologiche che fanno ricerca ed innovazione che coprano il 100% dei loro costi. Se la cooperazione con l’UE dovesse saltare, si farebbe un danno molto importante alle imprese di piccole e medie dimensioni e alle start up. E la situazione non migliorerebbe molto se fossimo ammessi come Paese terzo.
Anche le università svizzere temono le conseguenze della rottura con Bruxelles. Non perdete l’intervista con il presidente del Politecnico federale di Losanna (EPFL):
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Come hanno reagito i vostri partner e clienti?
Ci hanno chiesto subito dei chiarimenti. Noi cerchiamo di rimanere ottimisti e di tranquillizzare anche i nostri colleghi, ma naturalmente le domande sono tante. La situazione che si è creata è analoga all’annuncio della Brexit: all’epoca la preoccupazione più urgente era di capire come si poteva continuare a collaborare. La dinamica attuale è simile, con l’aggravante della ‘discriminazione culturale’ nei confronti delle aziende svizzere che la chiusura dei negoziati con l’UE potrebbe causare.
Alcuni partner potrebbero non voler più collaborare con delle imprese svizzere per paura che gli esaminatori delle proposte di progetto, che poi decretano i vincitori dei fondi europei, abbiano dei pregiudizi nei confronti dei partecipanti svizzeri nella loro valutazione. Ci è già capitato in passato che un partner con cui lavoravamo avesse deciso di interrompere la collaborazione perché non eravamo più Paese associato.
Cosa pensate di fare per evitare che si ripetano situazioni simili?
Stiamo pensando di aprire una filiale europea e di portare una parte del nostro business e del team in un Paese dell’UE. Questo significherebbe trasferire personale qualificato ma anche il know-how e molte partnership importanti che finora abbiamo sempre intessuto dalla Svizzera. Non saremmo gli unici a farlo.
Una mancata integrazione europea è dunque una perdita in tutti i sensi per la Svizzera?
Certo. Se anche trovassimo una ‘soluzione svizzera’, passeremmo in serie B su molte iniziative fondamentali e non faciliteremmo la mobilità dei lavoratori svizzeri all’estero. Oggi come oggi non si può più pensare di rimanere isolati. Bisogna collaborare il più possibile, perché la nostra società e la nostra economia dipendono sempre più da una rete che va al di là dei confini geopolitici.
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