Come la “minaccia straniera” ha plasmato l’orologeria svizzera
L'Apple Watch e i suoi consimili venuti dall'America del Nord e dall'Asia sono un pericolo potenzialmente mortale per l'orologeria svizzera. Non è la prima volta che gli esperti predicono un futuro a tinte scure per il settore. Excursus sulle crisi del fiore all'occhiello dello Swiss Made.
La pandemia, una crisi “storica” per l’industria orologiera? Nel 2020, l’esportazione di orologi ha registrato un calo del 22 per cento rispetto all’anno precedente. Si tratta di una perdita di 17 miliardi di franchi. È il peggior risultato dalla crisi finanziaria del 2008-2009. Contemporaneamente, nel momento peggiore della pandemia, gli orologi connessi hanno segnato una crescita del 20 per cento, infliggendo un nuovo duro colpo al settore.
Dopo la ripresa iniziata nel gennaio 2021, il professore dell’Università di Osaka e specialista di storia dell’orologeria Pierre-Yves Donzé parla di una crisi congiunturale che “potrebbe però rafforzare un’evoluzione iniziata una ventina d’anni fa che segna un calo dei volumi e un aumento delle vendite degli orologi di lusso”.
L’orologeria elvetica ha già conosciuto tre crisi strutturali quasi fatali. Anche se di natura diversa, tutte sono state provocate dalla concorrenza straniera che puntava su nuovi e più competitivi modelli d’affari.
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“Svegliatevi”
Nel 1870, con il 70 per cento della produzione orologiera mondiale la Svizzera è il leader globale indiscusso. L’esposizione universale di Philadelphia modifica però i rapporti di forza. L‘American Waltham Watch Company presenta la prima macchina completamente autonoma per la fabbricazione di viti di precisione che permette la produzione in serie. Questo concetto rivoluzionario dà la possibilità di produrre pezzi precisi e intercambiabili.
Di ritorno dagli Stati Uniti, Jacques David, ingegnere della marca di orologi Longines e membro della delegazione svizzera, presenta un rapporto che mette in allarme il settore: “Signori orologiai svizzeri, svegliatevi!”. Standardizzazione, realizzazione di componenti in fabbrica, produzione in serie di orologi a buon mercato, concentrazione verticale: dal 1890, gli americani superano i francesi, diventando la seconda nazione orologiera al mondo.
Sentendo il fiato sul collo della concorrenza, la Svizzera reagisce. Le esportazioni di orologi verso gli Stati Uniti, il primo mercato dell’industria orologiera elvetica, passano da 18,3 milioni di franchi nel 1872 a 3,5 milioni nel 1877. In quegli anni, un operaio americano produceva 150 orologi all’anno, mentre un orologiaio svizzero solo 40.
Jacques David promuove la modernizzazione della produzione. Nel Giura berneseCollegamento esterno e ai piedi della catena del Giura vengono costruite le prime grandi fabbriche in cui lavorano centinaia di operaie e operai poco qualificati. Da allora, la produzione in serie di orologi di bassa e media gamma coesiste con le aziende in cui vengono realizzati prodotti di alta precisione e di lusso.
Monopolio e dissidenti
Alla fine della Prima guerra mondiale, il settore orologiero svizzero si ritrova con un parco industriale sovradimensionato visto che durante il primo conflitto si era specializzato nella fabbricazione di componenti per le bocche da fuoco delle nazioni belligeranti. Inoltre, soffre a causa del calo costante dei prezzi.
Nel 1922, a Pforzheim in Germania, un’industria orologiera emerge “dal nulla” grazie allo “chablonnage”. Si tratta di una pratica che consiste nell’esportazione degli schemi dei meccanismi all’estero per la produzione con manodopera a buon mercato, dichiarando poi gli orologi come svizzeri ed eludendo così i dazi doganali. La concorrenza a stelle e strisce rimane agguerrita anche a causa del trasferimento della produzione industriale dalla Svizzera agli Stati Uniti. Inoltre, il marchio americano Bulova apre nel 1912 la prima fabbrica a Bienne.
Per lottare contro la fabbricazione di orologi all’estero sotto il marchio svizzero, nasce nel 1926 il primo cartello dell’industria orologiera svizzera: l’ÉbauchesCollegamento esterno SA, una holding per la fabbricazione di abbozzi (ebauches) e componenti di orologi. La produzione, i prezzi e la politica d’esportazione sottostanno a delle convenzioni. La grande depressione promuove il protezionismo: nel 1931 viene fondata una “super holding”, la Allgemeine Schweizerische Uhrenindustrie AG (Asuag), organismo privato che esercita un quasi monopolio sulla produzione e dà inizio a una guerra economica contro le aziende dissidenti.
La Confederazione si immischia nelle dispute emanando dei decreti e legalizzando il cartello: lo Statuto orologiero viene introdotto nel 1934 e definisce l’insieme delle misure giuridiche volte a proteggere l’industria orologiera svizzera e ad arginare il crollo dei prezzi, tramite tariffe stabilite dai datori di lavoro (1936).
“L’interventismo dello Stato migliora le relazioni tra i sindacati degli operai e il padronato. Tutti temevano la minaccia rivoluzionaria e il totalitarismo”, ricorda la storica Johann Boillat.
Il “mito” del quarzo
Durante il boom economico del Dopoguerra, la concorrenza internazionale diventa sempre più forte e porta a liberalizzare il settore. Lo Statuto orologiero viene abbandonato nel 1971. Alla fine degli anni Sessanta, il settore conta 90’000 operai e 1’500 aziende. Nel 1985, i lavoratori attivi nell’industria orologiera sono 30’000 e il numero di ditte oscilla tra le 500 e le 600. Il settore vive una crisi strutturale a causa della rivoluzione elettronica. Nonostante padroneggino questa innovazione tecnologica, gli svizzeri non credono nel quarzo e vengono così superati in velocità dai giapponesi.
Stando a Pierre-Yves Donzé, questa analisi è un “mito”. Le sue ricerche hanno dimostrato che la rivoluzione del quarzo non è la causa della crisi, ma ne ha semplicemente rafforzato gli effetti. Il problema era prima di tutto il sistema di produzione, protetto dallo Statuto orologiero. Infatti, si continuava a fabbricare orologi di qualità (salvo il marchio Rolex) senza razionalizzare la produzione e a realizzare in serie solo i pezzi di bassa gamma (per esempio il marchio Roskopf). La ditta Seiko segue invece un altro approccio, ossia unisce la produzione dei due modelli, immettendo sul mercato orologi realizzati in serie, più precisi e meno cari.
Anche il valore della moneta penalizza la Svizzera. Con l’abbandono del cambio fisso nel 1973, il franco spicca il volo rispetto al dollaro. Gli orologi Swiss Made diventano impagabili negli Stati Uniti e così le esportazioni verso il mercato principale passano dall’83 per cento nel 1970 a meno del 59 per cento nel 1975.
La riconquista
La Svizzera non crede più negli orologi meccanici e Omega non riesce a smerciare i suoi orologi elettronici. Le due holding dominanti, Asuag e SSIH, sono sull’orlo del fallimento. Chiamate a soccorrere il settore in crisi, le due grandi banche elvetiche UBS e la Società di banca svizzera SBS incaricano Nicolas Hayek di raddrizzare la rotta dell’industria orologiera svizzera. Un consorzio di banche finanzia il salvataggio. Si tratta di un’operazione non comune in quegli anni.
Dalla fusione di Asuag e SSIH nasce la Société suisse de microélectronique et d’horlogerie (SMH) che nel 1998 diventa lo Swatch Group. Nicolas Hayek e un gruppo di investitori acquistano la maggioranza del capitale. Nel 1985, in seguito all’accordo del Plaza il valore dello yen si rafforza nei confronti del dollaro e perde la sua competitività rispetto al franco svizzero. E ciò nel momento in cui Swatch iniziava la sua folgorante riconquista dei mercati.
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Gli orologiai svizzeri possono sopravvivere a un altro secolo turbolento?
Traduzione dal francese: Luca Beti
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