“Gli investimenti non bastano a trasformare un Paese come il Niger in una seconda Svizzera”
L’aiuto allo sviluppo funziona anche con Nestlé, il libero scambio e una mentalità capitalistica. Da noi intervistato, il CEO dell‘ONG Swisscontact discute di capitali, mercati e investimenti come altri parlerebbero di pozzi e carestie.
Swisscontact è un’ONG “diversa”: a differenza di molte organizzazioni caritatevoli svizzere che si oppongono con veemenza ad ogni tipo di alleanza con il settore privato e in generale guardano con diffidenza il mondo economico, la fondazione Swisscontact realizza da anni esattamente questi progetti. Ci siamo intrattenuti con il nuovo CEO, Philippe Schneuwly.
SWI swissinfo.ch: Cosa la irrita dell’attuale dibattito sulla cooperazione allo sviluppo?
Philippe Schneuwly: Ultimamente si è riaccesa la discussione sulla ragion d’essere della cooperazione allo sviluppo, visto che le aziende locali possono essere sostenute tramite l‘”impact investing”, ossia gli investimenti che generano un impatto sociale sul territorio. L’intento non è solo quello di produrre degli utili, ma di affiancare le imprese nel loro operato a favore del Sud del mondo, ad esempio nel creare posti di lavoro o affrontare le problematiche ambientali.
Si tratta di un tema di ampia portata, visto che ci sono parecchi soldi da convogliare verso progetti sostenibili. Si tratta di somme enormi, che superano di 100 o addirittura più volte gli stanziamenti pubblici all’aiuto allo sviluppo. Ci si è quindi chiesti se la cooperazione allo sviluppo di vecchio stampo – che è comunque un modello in disuso – fosse ancora necessaria, o se non fosse meglio dirigere il denaro verso iniziative locali in grado di accompagnare il processo di transizione economica e lo sviluppo.
Ci sono persone effettivamente convinte che con gl’investimenti si possa trasformare un Paese come il Niger in una seconda Svizzera. Ma non è così: nessuno investe in Niger perché mancano le condizioni quadro.
Perché è troppo rischioso?
Sì, decisamente! Ma visto che i capitali ci sono, tutti pensano di potersi servire. La gente non ha capito che, prima che gl’investitori possano entrare in scena, la cooperazione allo sviluppo deve tappare le falle e preparare il terreno. Pensare che in un Paese in via di sviluppo le aziende possano spuntare come nella Silicon Valley è completamente assurdo. Non succederà mai.
Swisscontact punta sull’imprenditorialità. È più opportuno investire nell’imprenditoria locale anziché distribuire elemosine?
La domanda centrale è la seguente: in un Paese come il Niger un imprenditore o un’imprenditrice può fare il suo mestiere come sarebbe possibile in Svizzera? La risposta è no, perché deve affrontare degli ostacoli che in Svizzera non esistono.
Ostacoli che troviamo a diversi livelli: innanzitutto per l’accesso al capitale, al know how, alle reti e ai mercati internazionali. Dobbiamo abbattere queste barriere. Non distribuiamo elemosine, ma cerchiamo di agevolare un cambiamento del sistema, affinché la popolazione residente abbia delle opportunità.
Sembra un approccio convincente per i Paesi emergenti e i Paesi in via di sviluppo politicamente stabili. Ma che ne è dei Paesi in cui i cambi di regime si accompagnano a continui stravolgimenti dell’ordinamento giuridico o che sono fragili a causa di conflitti in atto? Swisscontact evita volutamente questi Paesi, giusto?
No, non è così. Operiamo anche in queste condizioni, ad esempio nel Sahel, in Niger, in Ciad, nel Mali, in Burkina Faso e in molti altri Paesi e continenti in cui le condizioni quadro sono precarie.
Aiutare in questi Paesi significa abbassare l’asticella. Si tratta più che altro di un aiuto umanitario, che per definizione è una distribuzione di elemosina per assicurare la sopravvivenza della gente.
Portare avanti un progetto in Niger non significa creare una cultura d’impresa che permetta alla gente di avere un tenore di vita come in Svizzera. Non ci sono le condizioni quadro. Bisogna fare molte concessioni, ma ciò non significa dover rinunciare al principio dell‘”aiuto all’autoaiuto”.
Molte ONG attive nel settore degli aiuti sono molto scettiche sul libero scambio. Nell’ottica di un piccolo imprenditore nel Sud del mondo è un vantaggio o un ostacolo?
Dipende dall’accordo stipulato a monte. Per coloro che producono olio di palma in Indonesia l’accordo di libero scambio siglato con la Svizzera è senz’altro un vantaggio, visto che permette loro di esportare a condizioni migliori. In altri settori invece c’è il rischio che le importazioni a basso costo facciano concorrenza ai prodotti interni.
Faccio un esempio: se l‘Europa sovvenzionasse massicciamente la pesca o i prodotti agricoli e in seguito liberalizzasse la circolazione delle merci attraverso degli accordi di libero scambio, alcune aziende dei Paesi più poveri non potrebbero più tenere il passo perché non riceverebbero sussidi o non sarebbero altrettanto produttive della concorrenza europea.
Con che velocità l’accordo di libero scambio permetterà di abbattere gli ostacoli al commercio è una delle domande centrali da porsi. Se la transizione è troppo rapida le aziende non avranno il tempo di adattarsi. A mio modo di vedere – e questa è la mia opinione personale – un accordo di libero scambio deve tener conto del fatto che le fasi di sviluppo dei vari Paesi sono diverse. In tal caso possono nascere opportunità per entrambe le parti. Altrimenti, può succedere che un Paese soverchi l‘altro.
In aggiunta: più l‘Europa sottoscrive accordi di libero scambio con un numero crescente di Paesi del Sud del mondo, più i vantaggi derivanti dai prezzi si assottigliano per i produttori locali. Il che spinge a chiedersi: il valore aggiunto dov’è? Rimane ai consumatori in Europa o ne trae vantaggio anche chi produce?
Al riguardo la teoria economica è chiara: la concorrenza porta a una flessione dei prezzi, quindi il profitto rimane al consumatore. Se gli accordi di libero scambio devono essere uno strumento di sviluppo, allora devono essere impiegati in modo strategico e favorire l’esportazione di beni e servizi che schiudano prospettive di sviluppo al Paese produttore. Nel caso dell’accordo tra la Svizzera e l‘Indonesia per esempio l’intento è stato raggiunto prediligendo la produzione sostenibile di olio di palma rispetto al metodo convenzionale. Durante la negoziazione di accordi con Paesi in via di sviluppo, è importante riservare il giusto spazio alla cooperazione allo sviluppo.
In Marocco, Swisscontact ha avvicinato i produttori di latte a Nestlé. Come si può mediare una collaborazione propizia allo sviluppo di un Paese?
Inserendo i piccoli produttori in una catena del valore. Bisognerebbe focalizzarsi su settori in cui l’esportazione permette ai produttori locali di negoziare prezzi migliori o vendere volumi maggiori. Bisogna far sì che gli agricoltori locali possano fornire i loro prodotti a un esportatore o direttamente a un importatore all’estero. E per questo hanno bisogno di supporto.
Le grandi imprese come Nestlé non entrerebbero quindi in affari con i piccoli produttori locali se Swisscontact non li aiutasse a soddisfare i requisiti?
È ipotizzabile che una ditta delle dimensioni di Nestlé preferisca rivolgersi a grandi produttori a causa del rischio che i piccoli coltivatori rappresentano dal punto di vista della qualità e dei tempi di consegna. Oppure può darsi che decida di acquistare anche dai piccoli, ma non paghi un buon prezzo. Dal momento che un piccolo produttore è ritenuto affidabile e in grado di garantire una buona qualità può richiedere anche prezzi più elevati. Se i piccoli agricoltori si uniscono in consorzi guadagnano potere di mercato.
Come risponde alle critiche secondo cui queste partnership tra pubblico e privato favoriscono proprio i grandi consorzi che in sostanza non hanno bisogno di aiuto?
E se nel contempo ne approfitta anche la popolazione locale? In una situazione che mette tutti d’accordo non vedo dove sia il problema. L’importante è non sovvenzionare cose che il settore privato avrebbe fatto comunque.
In Indonesia abbiamo realizzato grossi progetti nel settore del cacao, peraltro cofinanziati da giganti come Nestlé, Mondelez, Mars e Barry Callebaut. La ripartizione dei finanziamenti tra pubblico e privato è una questione negoziale. Visto che rimane sempre una certa incertezza sull’esito effettivo può capitare che il settore pubblico paghi troppo, ma può succedere anche il contrario, con i grandi gruppi chiamati alla cassa. A prescindere, la domanda da porsi dovrebbe essere: che benefici ne traggono coloro cui è indirizzato il progetto?
Swisscontact è un’organizzazione leader nella realizzazione di progetti di sviluppo a livello internazionale. La fondazione indipendente e senza scopo di lucro è stata creata nel 1959 da personalità del mondo economico e scientifico svizzero.
Il budget annuo della fondazione si aggira sui 100 milioni di franchi. A differenza di altre organizzazioni caritatevoli non conduce campagne pubbliche di raccolta fondi ma si finanzia con i progetti.
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