L’orrore delle prigioni siriane raccontato agli studenti
Amal Nasr e Raneem Ma’Touq, rifugiate rispettivamente in Svizzera e in Germania, sono sopravvissute alle prigioni del regime siriano. Hanno scelto di testimoniare davanti agli allievi di diverse scuole svizzere.
Le due donne hanno testimoniato nell’ambito di un’azione di sensibilizzazione organizzata da Amnesty International nelle scuole e università svizzere, in occasione del quinto anniversario dello scoppio della rivoluzione siriana.
«È da sempre che i siriani subiscono una simile repressione o la situazione è peggiorata negli ultimi anni?», «Quanti siriani sono perseguitati dal regime?», «La gente in Svizzera è amichevole nei vostri confronti?».
Sono alcune delle domande poste dagli studenti del liceo di Kirchenfeld alla fine del seminario. Sui loro visi si percepiva ancora lo choc provocato dai racconti delle due donne.
«Mi hanno spezzato la schiena torturandomi con un arnese chiamato ‘tappeto volante’. Mi hanno fratturato il piede sinistro e tagliato i capelli con un coltello. Mi hanno bruciato le mani con delle sigarette. Mi hanno frustata. Per ricucire il mio braccio sinistro ci sono voluti 48 punti. Ho sanguinato per tre mesi. Ho anche perso la vista per tre ore, dopo sono stata trasferita in un ospedale dove ho subito un intervento ginecologico. Non so cosa mi hanno fatto e sono vergine».
È con queste parole – tradotte da un’interprete – che Amal Nasr ha iniziato a parlare davanti agli studenti. In questo caso non era però lei la vittima, bensì una prigioniera politica di 22 anni detenuta nella prigione femminile di Adra a Damasco, una delle più grandi del paese. La giovane ha scritto una lettera a Amal Nasr, attivista femminista che dagli anni 1990 si impegna nella difesa dei diritti delle donne. Anche lei è stata arrestata a più riprese.
Un sogno che si trasforma in un incubo
Amal Nasr ha ricevuto asilo in Svizzera oltre un anno fa, dopo essere fuggita dalla Siria perché le forze fedeli al regime la stavano ricercando. Un passo compiuto dalla maggior parte delle donne siriane per «proteggere i loro figli da stupri, rapimenti, detenzioni, dalla morte».
«In Siria ho lasciato la mia unica figlia. Ha vent’anni ed è schiacciata nella morsa della sporca guerra tra Stato islamico e regime», aggiunge.
Cercando di trattenere le lacrime, la donna spiega di non poterla fare venire in Svizzera perché la legislazione elvetica non permette il ricongiungimento famigliare coi figli maggiorenni.
L’ultima volta che è finita in prigione è stato per il suo coinvolgimento in un’iniziativa di pace organizzata da sostenitrici della causa femminile e oppositori del regime siriano. I suoi sogni di pace si sono però trasformati in un incubo quando si è ritrovata rinchiusa nella prigione di Adra, accusata di terrorismo.
Assieme a lei, dietro alle sbarre vi erano circa 800 donne, «sorelle, madri o figlie di uomini che avevano impugnato le armi per contrastare la violenza del regime».
Nulla più che dei numeri
«Prima della rivoluzione avevamo già sperimentato sulla nostra pelle la detenzione per motivi politici. Dopo la rivoluzione è però diventato terrificante. Eravamo rinchiuse in 12 in una cella di un paio di metri di lunghezza e di un metro e mezzo di larghezza. Non potevamo né dormire né sederci. La più giovane aveva 13 anni, la più vecchia 86. Non dimenticherò mai il giorno in cui una giovane donna è entrata nella cella gridando il numero di un cadavere: 15’940».
La giovane conosceva il numero poiché molti prigionieri, giovani e vecchi, avevano un numero impresso sulla loro schiena, spiega Raneem Ma’touq, anche lei detenuta ad Adra, dove ha incontrato Amal Nasr, un’amica dei suoi genitori.
«Ho visto bambini in prigione con un numero sulla schiena e naturalmente il destino di ogni bambino e ogni persona con un numero sulla schiena era la morte. Non si poteva credere che quei bambini fossero terroristi», afferma Raneem Ma’touq, che circa un anno fa è riuscita a rifugiarsi in Germania assieme alla madre e a un fratello.
«Ogni giorno venivano portati fuori dalla prigione circa 11 cadaveri. Non li portavano fuori subito dopo la morte. I corpi spesso rimanevano nelle celle per diversi giorni, a tal punto che l’odore della libertà veniva associato a quello della morte».
Scomparsi nel nulla
Con voce calma, la donna racconta che spesso, per far sì che non vi sia più nessuna informazione su di loro, i prigionieri sono rinchiusi in centri segreti, «dove vengono praticate le peggiori forme di tortura, le donne sono stuprate e gli organi dei detenuti sono asportati».
Questa giovane universitaria è finita nella prigione di Adra perché organizzava manifestazioni pacifiche per chiedere la libertà e uno Stato di diritto. «Per il regime, la nostra attività era più pericolosa di quella dei gruppi armati o del terrorismo di Daech. Malgrado formulassimo in modo pacifico delle richieste di pace, siamo sempre stati deferiti davanti a un tribunale antiterrorismo».
Suo padre, Khalil Ma’touq, era un avvocato e un attivista dei diritti umani da oltre 20 anni. È scomparso nell’ottobre 2012 assieme a un collega mentre si recavano sul loro posto di lavoro a Damasco. Da allora non ha più saputo niente di lui. Ha scoperto che è stato detenuto dal regime, che però ha sempre negato.
Grande interesse per l’iniziativa di Amnesty
L’iniziativa organizzata dalla sezione svizzera di Amnesty International nel marzo di quest’anno, in occasione del quinto anniversario dello scoppio della rivoluzione siriana, ha coinvolto diverse licei e le università di Losanna, Basilea, Berna, Zurigo e Friburgo.
Ogni volta, la partecipazione ha superato le aspettative. Ad esempio, al liceo di Kirchenfeld ci si aspettava la presenza di 70 studenti e non di 170. A Basilea, gli organizzatori hanno dovuto rifiutare l’ingresso a una quarantina di persone, poiché la sala era troppo piccola. Complessivamente hanno assistito ai seminari oltre 1’300 persone.
Con questa iniziativa, Amnesty ha voluto dare ai siriani «un’opportunità per esprimere le loro sofferenze». Inoltre, si trattava anche di mostrare le ragioni che hanno spinto molti di loro a fuggire dal loro paese.
«È da più di 40 anni che in Siria si pratica la repressione. Vi è addirittura una scuola specializzata», afferma Amal Nasr. Secondo la donna, più del 60% della popolazione siriana è stata perseguitata dal regime e «il numero delle persone scomparse rappresenta circa un quarto della popolazione».
«Al di là dell’immaginabile»
«Le loro testimonianze mi hanno impressionato molto», indica a swissinfo.ch uno studente al termine dell’incontro. «Hanno trasmesso molte informazioni. Non ero cosciente di come sono trattate le donne in prigione. Sono rimasto scioccato dal numero di prigionieri e dal fatto che sanno che il loro inevitabile destino è la morte».
Una ragazza è dal canto suo rimasta sorpresa dall’elevato numero di cittadini perseguitati dal regime. «Sapevo che la situazione in Siria è orribile», osserva un’altra studentessa, «ma le testimonianze di queste due ex detenute vanno al di là dell’immaginabile, in particolare la storia dei cadaveri che rimangono in cella per giorni».
Un giovane, lui stesso rifugiato del Kosovo, è stato particolarmente colpito: «Questi seminari permettono di dare un’immagine realistica di ciò che è l’asilo a coloro che non hanno nessun legame coi rifugiati o gli stranieri o che magari hanno paura di loro»
Traduzione e adattamento di Daniele Mariani
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