Un’agricoltura totalmente biologica è troppo rivoluzionaria?
Tra la sempre maggiore preoccupazione per i danni causati dalle sostanze agrochimiche all’ambiente e alla salute pubblica, l’agricoltura biologica è spesso presentata come una soluzione ecologica e sostenibile. Le esperienze di Sri Lanka e Svizzera, tuttavia, dimostrano che la realtà è ben più complessa.
Nel dicembre del 2019, il neoeletto presidente cingalese Gotabaya Rajapaksa ha annunciato formalmente le sue intenzioni per il Paese con un’ambiziosa strategia nazionale dal titolo “Visioni di prosperità e splendore”.
Tra le tante promesse c’era l’impegno a “promuovere e diffondere l’agricoltura biologica” nel giro di un decennio, per scatenare una “rivoluzione nell’uso dei fertilizzanti”. L’idea era di convertire i tradizionali villaggi agricoli al solo uso di concimi organici, oltre che di fornire agli agricoltori fertilizzanti organici e inorganici a titolo gratuito.
Nell’aprile del 2021, però, il presidente Rajapaksa ha sconvolto la nazione annunciando che, a partire dal mese successivo, avrebbe vietato l’importazione di fertilizzanti chimici e sostanze agrochimiche, inclusi pesticidi ed erbicidi. Ufficialmente, la manovra era intesa a limitare i costi sanitari causati da un uso eccessivo di sostanze chimiche in campo agricolo. Analisti e analiste, tuttavia, sospettano che la vera ragione dell’iniziativa fosse la carenza di valute straniere per pagare le importazioni: la pandemia da Covid-19 ha devastato l’industria del turismo e fatto crollare le rimesse inviate dall’estero, per cui il Paese si è trovato a faticare per pagare i beni importati. Secondo le statistiche della Banca centrale, solo nel 2020 lo Sri Lanka ha speso 259 milioni di dollari in fertilizzanti esteri, pari all’1,6 % delle sue importazioni totali.
La decisione, annunciata proprio all’inizio della stagione di semina del riso, ha provocato violente reazioni tra la popolazione cingalese. Migliaia di agricoltori, uomini e donne, sono scesi in strada a manifestare, lamentandosi di non aver avuto tempo a sufficienza per prepararsi, soprattutto visto che ci si aspettava che producessero da sé il fertilizzante organico.
Il blocco delle importazioni di fertilizzanti chimici metteva a rischio le principali colture cingalesi: secondo un sondaggio tra più di 1000 agricoltori commissionato dal think-thank Verité Research nel luglio del 2021, infatti, il 94% di chi coltiva riso e l’89% di chi coltiva tè e gomma usa fertilizzanti sintetici.
L’opposizione della comunità agricola e la preoccupazione per un possibile aumento incontrollato dei prezzi degli alimenti, alla fine, hanno convinto il governo a tornare sui propri passi. A novembre, appena sette mesi dopo la sua entrata in vigore, il divieto sulle importazioni è stato revocato, sebbene il presidente abbia continuato a insistere che “la politica agricola del Paese è totalmente a favore di un’agricoltura ecologica e focalizzata sul solo uso dei fertilizzanti organici”, incolpando “la mafia dei fertilizzanti chimici”, agricoltori poco informati e funzionari e funzionarie poco impegnati per le difficoltà incontrate.
Una cattiva reputazione
La disastrosa politica a favore dei fertilizzanti organici del presidente Rajapaksa, quindi, è fallita principalmente perché portata avanti in maniera sbagliata, con un periodo di transizione troppo breve, sebbene inizialmente godesse del sostegno della comunità agricola cingalese: il sondaggio di Verité Research, infatti, ha rivelato che quasi due terzi degli agricoltori intervistati si erano dichiarati a favore della visione del governo, ma che l’80% aveva previsto un periodo di transizione superiore a un anno.
“Adesso, l’agricoltura biologica si è guadagnata una cattiva reputazione tra la maggior parte degli agricoltori cingalesi”, ha spiegato Christoph Studer, agronomo e professore all’Università di scienze applicate di Berna. “A livello ufficiale, in Sri Lanka non usano più la parola “biologico”, preferendo il termine “ecosostenibile””.
La decisione di passare all’agricoltura biologica praticamente da un giorno all’altro è stata avventata e ha preso in contropiede gli agricoltori, impreparati e incapaci di adattarsi rapidamente, spiega Studer, che lavora anche come consulente per l’azienda di agrobusiness cingalese Baurs, fondata quasi 125 anni fa dall’emigrato svizzero Alfred Baur per fornire concime alle piantagioni di palme da cocco. L’azienda, finora la principale importatrice di fertilizzanti chimici del Paese, ha iniziato ad adattarsi per rispettare le nuove politiche agricole e passare alla produzione di fertilizzanti organici.
“Negli ultimi 60 anni si è pensato solo ad aumentare la produttività agricola, con l’idea che lo Sri Lanka è un Paese piccolo, privo di terreni arabili sufficienti per alimentarne la popolazione”, spiega. “Di conseguenza, istituti di ricerca e servizi di estensione agricola non hanno idea di come insegnare agli agricoltori a passare ai concimi organici”.
Un’iniziativa pionieristica
Oggi, molti Paesi cercano di promuovere l’agricoltura biologica: la strategia per la biodiversità Farm to Fork dell’Unione Europea prevede che gli Stati membri riducano l’uso dei fertilizzanti chimici del 20% e che almeno il 25% dei terreni coltivabili venga dedicato all’agricoltura biologica. Tuttavia, i Paesi che hanno implementato politiche ufficiali per rendere il proprio settore agricolo nazionale biologico al 100% sono pochissimi e, tra questi, nessuno è ancora riuscito a effettuare una transizione completa. Nel 2008, il minuscolo regno del Bhutan, in Asia meridionale, ha dichiarato l’intenzione di convertirsi totalmente all’agricoltura biologica entro il 2020, ma alla data indicata solo il 10% delle sue colture e l’1% delle sue terre coltivabili sono state certificate come tali. La nuova scadenza è prevista per il 2035.
Secondo l’Ufficio federale di statistica, in Svizzera il 15% degli agricoltori è già passato all’agricoltura biologica e non fa uso di pesticidi chimici, ma il settore agricolo si è dichiarato contrario all’imposizione di misure più ambiziose.
Lo scorso anno sono state avanzate due proposte controverse, sottoposte a votazione popolare secondo il particolare sistema a democrazia diretta del Paese elvetico: un’iniziativa chiamata “Acqua potabile pulita e cibo sanoCollegamento esterno”, che prevedeva la revoca dei sussidi agli agricoltori che facessero uso di pesticidi, e un’iniziativa “Per una Svizzera senza pesticidi sinteticiCollegamento esterno” che chiedeva di bandire quel genere di pesticidi. Entrambe le proposte sono state bocciate dal 60% dei votanti e delle votanti ma, se fossero state approvate, avrebbero trasformato la Svizzera in una pioniera dell’agricoltura biologica, il primo Paese europeo a bandire prodotti come fungicidi e diserbanti sintetici.
Evoluzione, non rivoluzione
I promotori e le promotrici delle due campagne hanno sottovalutato la resistenza degli agricoltori, quando invece avrebbero dovuto fare di più per coinvolgerli, ha dichiarato Edward Mitchell, biologo del suolo dell’Università di Neuchâtel, nonché uno di coloro che hanno organizzato l’iniziativa contro i pesticidi. La comunità agricola, che rappresenta solo il 5% della popolazione svizzera, ha fatto sentire la propria opposizione e l’Unione svizzera dei contadini ha dichiarato che, con il divieto d’uso dei pesticidi, la produzione agricola sarebbe calata del 20% o addirittura del 40%.
Anche il governo ha obiettato a entrambe le iniziative: Guy Parmelin, consigliere capo del Dipartimento federale dell’economia, della formazione e della ricerca, le ha definite una “rivoluzione” più che l’“evoluzione” verso un’agricoltura sostenibile auspicata dall’Assemblea federale.
Bandire le sostanze agrochimiche come è stato fatto in Sri Lanka non sarebbe fattibile in Svizzera, dice Mitchell.
“Quello dello Sri Lanka è un caso raro, perché in genere i governi hanno rapporti molto stretti con il settore agricolo”, dice. “Non potremmo mai aspettarci una cosa del genere dal governo svizzero, sia per motivi politici e filosofici, sia per l’influenza di lobby e interessi speciali”.
Mitchell è convinto che il settore agroindustriale abbia speso milioni di franchi a sostegno di chi si opponeva all’iniziativa. Sebbene il mercato svizzero sia molto più contenuto di quelli di Germania, Francia e Italia, le sostanze agrochimiche vengono pagate a caro prezzo. Secondo uno studio commissionato dal governo nel 2019, i prezzi dei fertilizzanti erano il 20% più alti che nei Paesi vicini, mentre erbicidi e insetticidi venivano venduti con maggiorazioni rispettivamente del 63% e del 68%.
Il problema della resa
L’opposizione degli agricoltori e dell’industria agrochimica non è l’unico ostacolo che i promotori e le promotrici dell’agricoltura biologica faticano a superare: anche la diminuzione della resa costituisce un grosso problema.
Secondo Adrian Müller, dell’Istituto di ricerca dell’agricoltura biologica (FiBLCollegamento esterno) svizzero, infatti, la resa dell’agricoltura biologica è inferiore di circa il 20% rispetto a quella dell’agricoltura convenzionale. Il divario aumenta ulteriormente per colture come radici, tuberi e cereali, anche se è leggermente inferiore per frutta, semi oleosi, legumi e vegetali.
Tuttavia, Müller e altri esperti ed esperte, tra cui l’agronomo Studer, dicono che il problema può essere affrontato tramite l’agroecologia e lo sviluppo di varietà dalla resa elevata, specifiche per l’agricoltura biologica, oltre che fornendo opportuna formazione e incentivi agli agricoltori.
Al momento, chi si affida all’agricoltura biologica si trova a dover piantare varietà di colture sviluppate per le pratiche agricole convenzionali, con un immediato svantaggio in termini di resa, spiega Müller.
Ogni Paese, poi, dovrà sviluppare dei validi programmi formativi e di assistenza agli agricoltori, offrire sussidi adeguati, investire nella creazione di varietà organiche dalla resa elevata e produrre fertilizzanti biologici a sufficienza. I vantaggi a lungo termine, tuttavia, valgono i costi iniziali.
“Il cibo coltivato in maniera convenzionale è estremamente economico perché dotato di costi esterni più elevati, come l’impatto ambientale”, dice, “costi che non emergono dallo scontrino al supermercato, ma che vengono pagati dalla società nel suo complesso”.
Studer afferma che il passaggio all’agricoltura biologica deve essere graduale: per iniziare, si può optare per l’agricoltura sostenibile, con l’aiuto dell’agroecologia. A questo scopo, bisognerà fare ricorso a pratiche come l’aumento dell’uso del compost e a metodi per prevenire l’esaurimento di sostanze nutritive nel terreno, come la rotazione delle colture o la consociazione con piante di legumi in grado di fissare l’azoto.
Sebbene tutte queste procedure richiedano anni, potrebbero essere una soluzione sostenibile per lo Sri Lanka, che già ne ha adottate alcune, dice.
“L’agricoltura convenzionale ha impiegato una ventina d’anni ad affermarsi nel Paese”, spiega Gurbir Singh, collega di Studer. “L’agricoltura biologica è più problematica e richiede maggiori conoscenze teoriche, per cui ci vorrà ancora più tempo perché acquisti popolarità”.
Un’agricoltura sostenibile
La tendenza verso un’agricoltura biologica e più ecosostenibile ha costretto giganti del settore agrochimico come Syngenta ad adattarsi, producendo pesticidi e fertilizzanti meno tossici, più rispettosi dell’ambiente. Il colosso svizzero è tra le aziende che stanno sviluppando alternative ai pesticidi sintetici, basandosi su organismi e composti naturali per produrre quelli che vengono definiti prodotti biologici.
“Vogliamo che tutti gli agricoltori abbiano un occhio di riguardo per la sostenibilità, a prescindere dal metodo che scelgono di adottare”, dice Petra Laux, responsabile dell’ecosostenibilità dell’azienda.
Syngenta si sta già dando da fare per limitare gli effetti negativi delle sostanze agrochimiche sulle persone e sull’ambiente, migliorando la sicurezza dei propri prodotti tramite test rigorosi, oltre ad aumentare l’efficacia di prodotti pensati per neutralizzare specifici parassiti. Inoltre, si impegna a promuovere pratiche agricole più ecologiche tramite la formazione e l’uso di strumenti digitali come l’applicazione di precisione dei pesticidi.
Il portfolio biologico dell’azienda include prodotti per la lotta biologica, usati per tenere sotto controllo malattie batteriche e fungine, parassiti, nematodi ed erbacce, e biostimolanti, sostanze applicate a piante, semi e radici per migliorare l’assorbimento delle sostanze nutritive, la qualità delle colture o la tolleranza a temperature estreme. L’innovazione più recente ─ ora in fase di collaudo in Cina ─ è un prodotto biologico capace di contenere la lisciviazione e quindi di diminuire la quantità di fertilizzanti necessari.
Al momento si tratta ancora di un mercato di nicchia per Syngenta, pari a meno dello 0,5% delle sue vendite complessive del 2020, poiché esistono ancora poche soluzioni naturali efficaci, spiega Laux, che tuttavia si dichiara ottimista sulla crescita futura di questa branca, sempre che si riesca a convincere gli agricoltori dei potenziali vantaggi e che i prodotti abbiano una migliore accoglienza sul mercato.
Shachi Gurumayum, un ex dipendente di Syngenta che oggi si occupa di gestire le attività svizzere di un’azienda texana che vende prodotti biologici per il controllo dei parassiti, sostiene che, data la mentalità avversa ai rischi di tanti agricoltori, è probabile che sarà l’agricoltura ecosostenibile e redditizia ad affermarsi, più che quella biologica.
“Ciò che dovremmo chiederci è come passare da un modello che ha rivoluzionato l’agricoltura e garantito la sicurezza alimentare a uno che usa prodotti più sicuri ma che non incrementa la produttività”, dice.
Non che si voglia escludere la possibilità che un Paese possa passare a un’agricoltura completamente biologica. Tuttavia, è bene tenere presente che ciò richiede investimenti anche in campi che vanno oltre l’agricoltura in senso stretto: fertilità dei terreni, qualità delle acque di falda, biodiversità e presenza di insetti impollinatori. Inoltre, richiederebbe a consumatori e consumatrici un impegno che va oltre il pagamento di un piccolo extra sugli alimenti organici.
“Alimentare il mondo con l’agricoltura biologica è possibile, ma solo se cambiamo abitudini, mangiando meno carne e sprecando meno cibo”, spiega Studer.
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