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I soldi svizzeri di Mobutu nelle tasche dei suoi eredi

L'ex presidente della Confederazione Pierre Aubert ha ricevuto Mobutu Sese Seko a Berna nel 1987 Keystone

I fondi depositati in Svizzera da Mobutu Sese Seko, e congelati dal 1997, finiranno nelle tasche degli eredi dell'ex dittatore congolese. Gli sforzi elvetici per restituire quasi 8 milioni di franchi al popolo congolese non hanno trovato il sostegno di Kinshasa.

Dodici anni di sforzi inutili. I tentativi della Svizzera di restituire al popolo della Repubblica democratica del Congo (RDC) i 7,7 milioni di franchi depositati nelle banche elvetiche da Mobutu si sono scontrati con un muro di avidità.

«La Svizzera ha constatato con grande rammarico che il governo congolese non ha mai fornito il suo sostegno», ha affermato mercoledì a Kinshasa l’ambasciatore elvetico Linus Von Castelmur.

Le autorità di Kinshasa, ha spiegato Von Castelmur, non hanno mai fornito alla giustizia elvetica gli elementi che provano l’origine illecita dei fondi.

«Falso!», ha replicato il governo congolese, che si dice scontento che i soldi sfuggano al suo popolo, si legge sul sito di Radio Okapi, l’unica emittente congolese libera e obiettiva, cofinanziata dalla fondazione svizzera Hirondelle.

Occasione persa

Gli averi di Mobutu sono stati congelati dopo la morte del presidente nel 1997, per evitare che finissero nelle mani degli eredi e non in quelle del popolo congolese. Il sospetto è in effetti che i soldi provenissero da fondi pubblici.

La mancanza di collaborazione da parte congolese e una lacuna nella legislazione elvetica non hanno tuttavia permesso di giungere ad una soluzione equa (vedi cronologia a fianco). In seguito alla decisione del 14 luglio scorso del Tribunale penale federale, la Confederazione è stata costretta a revocare il blocco.

L’unica iniziativa della RDC, ha rammentato Linus Von Castelmur, è stato l’inoltro di una denuncia penale relativa ai valori patrimoniali di Mobutu. Una denuncia giunta però quando erano già scaduti i termini di prescrizione.

Per l’ambasciatore svizzero nella RDC, è stata «persa un’occasione» per mostrare l’impegno degli Stati contro la corruzione e l’impunità. «Siamo estremamente dispiaciuti per questo esito negativo», ha ribadito, aggiungendo che con 1,6 miliardi di dollari restituiti nel corso degli ultimi 20 anni, la Svizzera è «il paese leader per ciò che concerne la restituzione di fondi pubblici sottratti dai tiranni».

Invertire l’onere della prova

«È la prima volta che la Svizzera si trova confrontata con questa situazione», conferma a swissinfo Nadine Olivieri Lozano, portavoce del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE).

«Nelle vicende legate ai fondi di Abacha in Nigeria, di Montesinos in Perù e di Marcos nelle Filippine – aggiunge – le procedure sono andate a buon fine».

Per evitare il ripetersi di tali disguidi, il Consiglio federale ha incaricato il DFAE di elaborare una legge che renda possibile la restituzione di fondi bloccati alle popolazioni depredate, anche in assenza di un accordo di assistenza giudiziaria tra la Svizzera e il paese interessato.

La nuova legge, che sarà presentata l’anno prossimo, permetterà di invertire l’onere della prova: spetterà ai titolari dei fondi bloccati dimostrarne l’origine lecita. Se non ci riusciranno, i fondi in questione saranno confiscati e restituiti allo Stato da cui provengono.

La politica davanti al popolo

Profondo conoscitore della situazione sociopolitica nella RDC, per aver lavorato sul terreno con Radio Okapi, il giornalista ticinese Daniele Piazza non è affatto sorpreso dalla mancanza di collaborazione da parte congolese.

«Nel governo di Kabila [presidente della RDC dal 2001, ndr] siede anche uno dei figli dell’ex dittatore: Nzanga Mobutu è vice primo ministro e ministro dell’agricoltura», ci spiega.

Negli ambienti governativi e parlamentari congolesi, prosegue Piazza, si dice che sia stata la Svizzera a non essersi data da fare; per gli operatori a difesa dei diritti dell’uomo è invece mancata la volontà delle autorità. Secondo l’ong Voix des sans Voix, il governo ha privilegiato le alleanze politiche a scapito del popolo congolese.

«Vi è poi gente che si chiede cosa sarebbe successo se questi soldi fossero stati restituiti: molti credono che sarebbero comunque finiti nelle tasche dei governanti locali».

Speranze infrante

Stremata da decenni di conflitti, la RDC rimane in una situazione disastrosa. Il processo di costituzione di uno Stato di diritto è lento e le speranze popolari nate con le elezioni del 2006 – le prime elezioni libere dell’ex Zaire – s’infrangono giorno dopo giorno.

«Lo Stato non esiste, le infrastrutture sono allo sbando, la giustizia e la scuola non funzionano, l’impunità è la regola e, soprattutto nell’est del paese, le violazioni dei diritti dell’uomo sono all’ordine del giorno», conclude Daniele Piazza.

Luigi Jorio, swissinfo.ch

1997: Morte di Mobutu. In seguito a una richiesta di assistenza giudiziaria della RDC, la Svizzera ordina il congelamento temporaneo degli averi di Mobutu nella Confederazione (circa 8 milioni di franchi).

2003: In mancanza di elementi probanti da parte del governo di Kinshasa, l’Ufficio federale di giustizia archivia il procedimento. Per evitare di restituire i soldi agli eredi di Mobutu, il Consiglio federale decide di bloccare i fondi per tre anni, sulla base della Costituzione.

2006: Il blocco dei fondi è prorogato di due anni

2007: L’allora presidente della Confederazione, Micheline Calmy-Rey, si reca nella RDC per sollecitare le autorità locali.

2008: In accordo con il presidente Kabila, la Svizzera prolunga il blocco degli averi di Mobutu.

Gennaio 2009: La RDC presenta una denuncia penale in Svizzera relativa ai valori patrimoniali dell’ex dittatore; ulteriore proroga del blocco.

21 aprile 2009: Il Ministero pubblico della Confederazione è costretto a respingere la denuncia: i presunti atti di riciclaggio di Mobutu in Svizzera hanno superato i termini di prescrizione. La RDC decide non presentare ricorso.

27 aprile 2009: In un ultimo disperato tentativo, un cittadino svizzero presenta una denuncia all’autorità di vigilanza, sperando che il Tribunale penale federale (TPF) eviti lo sblocco dei beni.

14 luglio 2009: IL TPF decide di non dar seguito al ricorso.

15 luglio 2009: Il Dipartimento federale degli affari esteri notifica alle banche e alle parti interessate la sospensione del blocco degli averi.

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