Come mettere fine all’impunità che rende vani gli sforzi di pace in Sudan?
La guerra in Sudan ha portato alla più grande crisi umanitaria del mondo. I crimini di guerra commessi sono finora rimasti impuniti e sarà difficile consegnare i responsabili alla giustizia.
“La crisi in Sudan è una tragedia che sembra essere scivolata nella nebbia dell’amnesia globale”, ha dichiarato la scorsa primavera l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk al Consiglio dell’ONU per i diritti umani a Ginevra.
Il suo intervento è avvenuto un anno dopo lo scoppio nel Paese africano della guerra tra l’esercito sudanese e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (RSF). Entrambe le parti in conflitto hanno ucciso migliaia di persone e creato un clima di terrore che ha provocato milioni di sfollati e sfollate. In aggiunta, le forniture mediche e gli aiuti umanitari sono stati negati a coloro che si rifiutano di lasciare le loro case.
Il Sudan sta vivendo la più grande crisi umanitaria del mondo. Negli ultimi 16 mesi, dieci milioni di persone sono state sfollate, 25 milioni soffrono la fame e un milione di persone è a rischio di morire di fame.
Nessuno è stato ancora processato per questi crimini di guerra e umanitari, che includono documentate violenze sessuali, torture e detenzioni arbitrarie.
Esperti ed esperte sostengono che l’accertamento delle responsabilità sarà lungo, dato che i conflitti di interesse tra gli alleati delle parti in guerra ostacolano i colloqui di pace. Nel frattempo, a entrambi gli eserciti non mancano le armi, con rifornimenti provenienti da tutto il mondo.
“La completa impunità per i crimini in Sudan ha fatto sì che i signori della guerra, i capi delle milizie e i generali l’abbiano fatta franca per molto tempo”, afferma a SWI swissinfo.ch Jan Egeland, segretario generale del Consiglio norvegese per i rifugiati ed ex sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari.
Due generali e un genocidio impunito
Al centro della guerra, iniziata nell’aprile 2023, ci sono due generali ed ex alleati che si contendono il potere e le risorse del Paese, tra cui oro e petrolio. Abdelfattah Burhan è de facto il capo di Stato ed è al comando dell’esercito regolare (SAF). Nell’ottobre 2021 ha organizzato un colpo di Stato con l’appoggio del suo vice e leader delle RSF, Mohamed Hamdan Dagalo, alias Hemedti.
Tutti i civili sono stati quindi rimossi dal governo di transizione insediato due anni prima a seguito di una rivolta popolare e della cacciata del dittatore Omar al-Bashir.
Burhan e Hemedti avevano già svolto un ruolo chiave nella lotta contro i ribelli dal 2003 al 2005 nella guerra civile nella regione occidentale del Darfur, in Sudan. Burhan era allora a capo dell’esercito sudanese in Darfur. Hemedti era il comandante di una delle milizie Janjaweed schierate dal governo per combattere i ribelli.
Con 300’000 morti, il Darfur è stato descritto come il primo genocidio del XXI secolo, con i Janjaweed accusati da membri della comunità internazionale di pulizia etnica e di aver usato lo stupro di massa come arma di guerra.
Hemedti e i membri della sua milizia non sono mai stati processati. Lui ora siede in cima a un enorme impero commerciale, che comprende interessi in miniere d’oro. Né Burhan, né Hemedti sono stati incriminati dalla Corte penale internazionale (CPI).
Altri sviluppi
Sudan, quel che c’è da sapere sui negoziati in Svizzera
Nel marzo 2009 la CPI ha emesso un mandato di arresto contro l’allora presidente Omar al-Bashir per crimini di guerra e contro l’umanità, e un altro nel luglio 2010 per genocidio. “L’esercito e le RSF hanno costantemente agito nell’impunità, per cui i negoziati volti a portare la tanto necessaria pace, sicurezza e dignità al popolo sudanese hanno continuato a bloccarsi”, ha dichiarato Türk al Consiglio per i diritti umani.
Gli ultimi colloqui internazionali con le due parti in guerra si sono svolti per dieci giorni a partire da metà agosto sotto la guida degli Stati Uniti nella regione di Ginevra. La Svizzera ha ospitato l’incontro insieme ad Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Unione Africana e ONU. L’esercito sudanese non ha partecipato di persona, ma ha preso parte virtualmente dal Cairo. I colloqui di Ginevra si sono inizialmente concentrati sulla fornitura di aiuti umanitari. È ancora troppo presto per dire se l’incontro porterà effettivamente a un accesso adeguato agli aiuti umanitari.
Fornitura illimitata di armi
“Come in tutte le zone di guerra – da Gaza al Myanmar e all’Ucraina – la ragione della continua impunità è che coloro che hanno influenza, coloro che forniscono armi e coloro che gettano benzina sul fuoco si concentrano solo sulle atrocità dell'”altra parte” e non su ciò che fanno i propri alleati”, afferma Jan Egeland. Come altri conflitti, quello in Sudan è esacerbato da interferenze non sempre nitide.
Sia il SAF che le RSF hanno a disposizione una grande quantità di armi e ricevono sostegno finanziario, politico e militare da altri Paesi, tra cui Emirati Arabi Uniti, Cina, Russia, Serbia, Turchia e Yemen.
In un rapporto pubblicato a gennaio, esperti ed esperte incaricati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno denunciato le violazioni dell’embargo sulle armi in Darfur, in vigore dal 2004. Hanno fatto riferimento a diversi Paesi, tra cui gli Emirati Arabi Uniti, accusati di aver inviato armi ai paramilitari delle RSF. Il governo di Abu Dhabi nega queste accuse.
In un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa AFP a metà agosto, Jalel Harchaoui, ricercatore al Royal United Services Institute britannico, ha affermato che fino al luglio 2023 l’Egitto, politicamente allineato con gli Emirati Arabi Uniti, è stato il più importante sostenitore dell’esercito sudanese.
Harchaoui ha anche aggiunto che l’Iran vende droni all’esercito sudanese dal 2023.
La Russia ha inizialmente sostenuto le RSF attraverso il suo gruppo paramilitare Wagner. Ora ha riorientato il suo sostegno militare all’esercito sudanese in cambio di una base navale sul Mar Rosso.
L’uomo forte della Libia orientale, il maresciallo Khalifa Haftar, sostenuto anche dagli Emirati Arabi Uniti, ha facilitato generose forniture di carburante e armi alle RSF, asserisce Harchaoui.
In passato, le RSF sono state indirettamente sostenute, e quindi rafforzate, anche dall’Unione Europea: per combattere la migrazione irregolare dalla regione del Corno d’Africa attraverso il Sudan e la Libia verso l’Europa, dal 2016 al 2019 l’UE ha finanziato un programma di “Migliore gestione della migrazione” con 40 milioni di euro (37,5 milioni di franchi svizzeri) come parte di quello che viene chiamato “Processo di Khartoum”. Vi hanno partecipato sedici Paesi, tra cui il Sudan. Le RSF di Hemedti sono state incaricate dei controlli alle frontiere.
E la giustizia internazionale?
Nel frattempo, all’inizio di agosto, il procuratore capo della Corte penale internazionale ha invitato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a cercare “modi creativi” per porre fine alla spirale di violenza in Sudan. “Il terrore è diventato una moneta comune”, ha dichiarato durante il briefing biennale del Consiglio.
Il rappresentante statunitense ha sottolineato che il Consiglio di Sicurezza ha assistito ad atrocità simili due decenni fa. Il fatto che alcuni degli stessi attori stiano nuovamente vittimizzando persone vulnerabili è possibile perché i responsabili non sono mai stati portati davanti alla giustizia vent’anni fa, ha affermato. Ha anche chiesto agli attori esterni di smettere di sostenere le parti in conflitto.
Per chiamare i responsabili a rispondere delle loro azioni e raccogliere le prove dei crimini, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra ha istituito una missione d’inchiesta della durata di un anno, nell’ottobre 2023. Il Sudan ha rifiutato la missione sostenendo che il Paese dispone già di una commissione d’inchiesta nazionale. Tuttavia, questa indaga solo sulle violazioni commesse dalle RSF. Le RSF hanno invece accettato di collaborare con la missione ONU.
Il lavoro della missione d’inchiesta è stato inizialmente ritardato a causa della mancanza di fondi da parte delle Nazioni Unite e della mancanza di accesso alle vittime in Sudan. Tra gennaio e agosto ha potuto incontrare vittime e testimoni in Ciad, Kenya e Uganda e ha avuto accesso alle testimonianze di prima mano di 182 persone sopravvissute e testimoni di violazioni dei diritti umani, ha dichiarato alla stampa il capo della missione, Mohamed Chande Othman, in occasione della pubblicazione del rapporto all’inizio di settembre.
Altri sviluppi
Guerra in Sudan, come le donne vogliono influenzare il processo di pace a Ginevra
La missione ha anche consultato difensori dei diritti umani sudanesi, esperte ed esperti di diritti dei bambini e di violenza sessuale di genere. Secondo il rapporto, le parti in conflitto hanno effettuato attacchi aerei e bombardamenti contro la popolazione civile e sono responsabili di stupri, detenzioni arbitrarie e torture.
“Dato che le parti in conflitto non sono riuscite a risparmiare le persone civili, è imperativo che una forza indipendente e imparziale, con il mandato di salvaguardare la popolazione, venga dispiegata senza indugio”, ha affermato Othman. Il rapporto raccomanda anche di estendere l’attuale embargo sulle armi in Darfur a tutto il Sudan per arginare la fornitura di armi.
Il rapporto richiede inoltre che la giurisdizione della CPI, derivante da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 2005 sulla situazione in Darfur, sia estesa a tutto il Sudan e chiede l’istituzione di un meccanismo giudiziario internazionale separato che lavori in tandem e a complemento della CPI.
“Come organizzare questo processo dovrebbe essere compito delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana”, afferma Jan Egeland, aggiungendo che i vicini del Sudan e le potenze regionali e internazionali devono sostenere questo processo di giustizia.
A cura di Virginie Mangin/ts
Immagini: Helen James
Traduzione di Marija Miladinovic con l’aiuto di Deepl
In conformità con gli standard di JTI
Altri sviluppi: SWI swissinfo.ch certificato dalla Journalism Trust Initiative
Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.
Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.