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Il vil denaro fa litigare Svizzera e Italia

La Svizzera preoccupa Tremonti, Tremonti preoccupa la Svizzera Keystone

La recente decisione del governo ticinese di congelare la metà delle imposte alla fonte dei frontalieri ha riacceso la vertenza in corso ormai da alcuni anni tra Roma e Berna. Anche in Ticino, la mossa non ha suscitato solo consensi: c'è chi ha denunciato l'esecutivo per abuso d'autorità.

La fiscalità dei redditi da risparmio «è un tema serio, che va trattato in modo serio, non in modo svizzero», affermava il ministro italiano delle finanze e dell’economia Giulio Tremonti in tempi recenti. E ancora: «Ci sono più società di Cayman a Lugano in Svizzera, che non a Cayman; e più società di Cayman a Lugano che di residenti a Lugano». La replica non si è fatta attendere: «Fascetto Tremonti», «Tremonti Achtung!», «Mafialand» e «Italia paese fallito», si leggeva sul Mattino della domenica, l’organo della Lega dei ticinesi.

Una cosa è certa: tra Svizzera e Italia – al di là delle dichiarazioni diplomatiche – i rapporti sono piuttosto tesi da un paio d’anni. I motivi d’attrito sono in buona parte riconducibili ai capitali depositati da cittadini italiani nelle banche svizzere, in particolare ticinesi.

Capitali che Giulio Tremonti tenta di recuperare attraverso vari scudi fiscali e che l’hanno portato a esprimere a più riprese giudizi molto negativi sulla Confederazione. Parole accompagnate da fatti: l’inserimento della Svizzera nella lista italiana dei paradisi fiscali, le misure “discriminatorie” adottate contro la Confederazione nell’ambito dello scudo fiscale, le perquisizioni delle filiali in Italia di alcune banche elvetiche, i più severi controlli con tanto di “fiscovelox” alla dogana.

Una serie di decisioni che hanno ostacolato non poco le relazioni economiche tra Svizzera e Italia, creando soprattutto problemi alle aziende svizzere interessate a lavorare nella Penisola.

Dalla Libia ai ristorni

Sulla scia delle questioni finanziarie, le incomprensioni si sono poi moltiplicate, basti pensare alle critiche del ministro degli esteri italiano Franco Frattini per le misure adottate da Berna contro Tripoli (blocco dei visti Schengen) durante la crisi tra Libia e Svizzera e le discussioni sui frontalieri italiani durante la campagna elettorale per le recenti elezioni ticinesi.

Ultimo episodio in ordine di tempo: la decisione del cantone Ticino, il 30 giugno, di non riversare all’Italia la metà delle imposte alla fonte dei frontalieri per il 2010. La cifra – 28,5 milioni di franchi – è stata bloccata su un conto bancario, in teoria finché Italia e Svizzera non siederanno al tavolo delle trattative. In pratica, i soldi dovranno comunque essere versati – in questo caso da Berna – come stabilito dall’accordo.

L’iniziativa – votata dalla maggioranza del governo (due leghisti e un popolare democratico) – mira a “muovere le acque”, ovvero spingere Berna ad agire contro i ripetuti attacchi di Giulio Tremonti e a rinegoziare al ribasso il tasso di ristorno (attualmente 38,8%) all’Italia delle imposte alla fonte, stabilito da una convenzione del 1974 e molto più elevato rispetto a quello concordato con l’Austria (12,5%).

Tentativi infruttuosi

La decisione ticinese ha da un lato messo in imbarazzo il governo svizzero, secondo il quale un’azione di forza non è mai auspicabile, ma ha nel contempo ottenuto alcuni risultati. Tra le parti sono infatti previsti incontri diplomatici per cercare di far avanzare i dossier in sospeso.

La ministra delle finanze Eveline Widmer-Schlumpf ha detto in proposito di capire la posizione ticinese, aggiungendo che l’accordo sui ristorni non corrisponde effettivamente più alle condizioni attuali. La consigliera federale ha precisato che la mossa ticinese ha certamente avuto il merito di stimolare Berna, anche se il consiglio federale si sarebbe comunque attivato presso l’Italia.

In realtà, però, il governo svizzero si sta attivando già da un paio d’anni nei confronti di Roma ma senza successo. Infatti, tutti i tentativi dell’esecutivo elvetico per rilanciare un accordo di doppia imposizione – in cui verrebbero regolate le vertenze in materia fiscale – non hanno ottenuto alcun riscontro nella capitale italiana.

«Pagliacci»

La decisione ticinese ha intanto suscitato polemiche all’interno del cantone stesso. «Finora le pagliacciate erano confinate sul Mattino della domenica: dal 10 aprile [elezione di un secondo rappresentante leghista nell’esecutivo ticinese] tre pagliacci [il terzo sarebbe il popolare democratico Beltraminelli] comandano anche in governo. Poveri ticinesi, che state a guardare con le mani in mano». Parole di Paolo Bernasconi, avvocato ticinese e professore universitario di diritto, intervistato dalla Regione Ticino lo scorso 8 luglio.

A suo parere, «la decisione governativa è illegale. Infatti, i rapporti tra la Confederazione e i cantoni sono disciplinati dalla Costituzione e dalla legge. I rapporti fra gli Stati sono disciplinati dal diritto internazionale e dai trattati: il cantone Ticino deve quindi eseguire un trattato stipulato fra la Confederazione svizzera e l’Italia, e non ha alcuna competenza per interferire».

Secondo l’avvocato, l’interferenza lede oltretutto un principio fondamentale del diritto internazionale, ossia il rispetto degli accordi presi. Per disdirli, occorre rispettare l’apposita procedura. Bernasconi ritiene quindi che quanto fatto equivale a «un abuso d’autorità punibile in base al codice penale».

Affaire à suivre

Due giorni dopo giunge puntuale la replica dalle colonne del Mattino: «Paolo Bernasconi si dimostra […] per quello che è: un emerito cretino […] che si rode il fegato perché la maggioranza del governicchio ha almeno avuto gli attributi di dare un segnale forte al fascetto Tremonti». A Bernasconi viene inoltre rimproverato di voler sfasciare la piazza finanziaria luganese, quando invece l’esecutivo ticinese ha agito per difendere il cantone, oltre che dall’ostilità del ministro italiano, anche «dalla nullafacenza di Berna».

Un privato cittadino ticinese – Alberto Di Stefano, direttore di banca a Lugano – ha dal canto suo segnalato il comportamento del governo ticinese alla magistratura, che ha però decretato il 22 luglio un non luogo a procedere, «non essendo adempiuti gli elementi costitutivi del reato ipotizzato».

Di Stefano ha annunciato che intende ricorrere se necessario fino al Tribunale federale, la massima istanza giudiziaria svizzera. Nel frattempo, un altro ticinese, Arnaldo Alberti, ha denunciato il governo per appropriazione indebita.

Anche se la soluzione del contenzioso italo-svizzera pare dunque ancora lontana, le parti sembrano comunque fiduciose: «La Svizzera e l’Italia sono paesi talmente amici da non riuscire a immagine l’insorgere di problemi o, per lo meno, non se lo augurano», ha commentato l’ambasciatore italiano a Berna Giuseppe Deodato, il giorno seguente la decisione di bloccare i ristorni.

Il cosiddetto «Accordo tra l’Italia e la Svizzera relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei comuni italiani di confine» è stato firmato nel 1979 ma è entrato in vigore retroattivamente nel 1974.

La quota del ristorno dell’imposta alla fonte era inizialmente del 40%, poi nel 1985 del 38,8%. La maggior parte delle imposte alla fonte verso l’Italia è versata dal Ticino (circa 90%), il restante 10% dai Grigioni e dal Vallese.

Nel caso dei frontalieri austriaci, solamente il 12,5% viene ritornato all’Austria. A tale riguardo, il Consiglio federale ha affermato che gli accordi non possono essere confrontati direttamente.

Nel caso italiano si tratta di ristorni validi solo per i frontalieri che vivono entro un raggio di 20 km dalla frontiera. Nel caso austriaco il ristorno vale per tutti i lavoratori.

Gli ultimi dati disponibili concernenti lo spostamento di frontalieri in uscita dal cantone Ticino risalgono al 2000, in occasione del censimento federale della popolazione.

I lavoratori che viaggiavano quotidianamente verso l’estero (quindi l’Italia) erano allora 429. A recarsi ogni mattina in Svizzera, partendo da sud, sono invece circa 50 000 persone (dati inizio 2011).

Nel 2002 è entrato in vigore l’accordo bilaterale sulla libera circolazione delle persone.

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