L’eredità dei sepolti dalla montagna
100 anni fa, mentre scavavano la galleria del Lötschberg, 25 minatori italiani morirono travolti dai detriti. Ancora oggi, il loro ricordo è un invito a riflettere su emigrazione e sicurezza sul lavoro.
7 settembre 2008: un treno speciale partito da Berna entra a passo d’uomo nel vecchio tunnel del Lötschberg. A bordo ci sono più di trecento persone, in buona parte di origini italiane. Il silenzio, mentre il convoglio sfila davanti al cunicolo che fu teatro del dramma, è rotto solo dal suono di una tromba.
Dietro la parete, da qualche parte sotto i detriti, ci sono i resti di 24 minatori. Anche i bambini – che fino a qualche attimo prima chiacchieravano tra di loro ora in italiano, ora in tedesco a riprova di un’integrazione ormai riuscita – sembrano cogliere la solennità del momento.
Più tardi, nel cimitero di Kandersteg, la stessa scena di raccoglimento commosso si verifica davanti al monumento sotto il quale è sepolto Vincenzo Aveni. Il suo è l’unico corpo che la montagna ha restituito.
Emigrazione e lavoro
Il sacrificio dei minatori non è solo una storia italiana. La costruzione del Lötschberg rappresenta un momento di sviluppo economico per la Svizzera e per l’Europa. E anche un banco di prova per la convivenza tra culture. È una storia da cui si dovrebbe imparare, ha ammonito René Mäder, sindaco di Kandersteg, nel suo discorso. «Allora in paese faceva discutere la creazione di una scuola cattolica» in terra riformata, «oggi sono i minareti a dividere gli animi». E i morti in miniera per un futuro migliore richiamano alla mente «i gommoni carichi di profughi che affondano al largo di Lampedusa o della costa meridionale spagnola».
La storia di Vincenzo e dei suoi compagni resta attuale anche da un altro punto di vista: la sicurezza dei cantieri. Nella sua preghiera, il sacerdote della comunità italiana dell’Oberland bernese, Jan Zubrowski, ha ricordato le innumerevoli vittime del lavoro, un ricordo ripreso anche da Vania Alleva, la rappresentante del sindacato Unia. Solo in Svizzera, ogni anno si verificano 250’000 infortuni, di cui 175 mortali. «Ricordare la tragedia del 1908», ha detto la Alleva, «significa commemorare tutti i morti del lavoro, significa trarre i dovuti insegnamenti e farne tesoro per il futuro. Significa anche capire che la sicurezza sul lavoro e la protezione della salute sono anche espressione del rispetto per le persone che svolgono per noi i lavori più pericolosi e pesanti».
Un simbolo
Quello del Lötschberg non è l’unico e nemmeno il più grave dramma che ha colpito gli emigranti italiani in Svizzera, ma forse più di altri ha assunto un carattere simbolico, diventando l’emblema del sacrificio e della conquista, attraverso il lavoro, di un’esistenza migliore.
Il primo a fare del cimitero di Kandersteg un luogo di pellegrinaggio fu proprio un minatore. Il 24 luglio del 1908 avrebbe dovuto trovarsi in galleria. Ma era malato; un compagno si offrì di prendere il suo posto e di lasciargli il guadagno della giornata da inviare alla famiglia, un gesto che il destino ripagò con la morte.
Più tardi, quando in Svizzera arrivò un’altra ondata di immigrati italiani, la storia della tragedia del Lötschberg riemerse dal passato. «Se ciò è successo lo si deve al mio predecessore padre Bernardino Corrà, giunto nell’Oberland bernese negli anni sessanta», racconta don Jan Zubrowski. «Presto scoprì che a Kandersteg una missione cattolica italiana era esistita già ai tempi della costruzione della galleria. In un certo senso ne raccolse l’eredità». Fu lui che nel 1989 ebbe l’idea di commemorare le vittime del Lötschberg.
Da allora, ogni anno, rappresentanti della comunità italiana si recano a Kandersteg per tenere vivo il ricordo del sacrificio di tanti connazionali. «È una storia che vogliamo tramandare ai nostri figli», spiega Cosimo Titolo, presidente del comitato organizzatore del centenario. «Questi operai arrivati qui cento anni fa hanno portato ricchezza e benessere e purtroppo hanno trovato la morte. Noi vogliamo far passare questo messaggio: le persone devono essere più buone, devono comprendere che gli emigranti non sono un male».
Epopea
Dopo l’iniziale diffidenza, l’incontro tra la cultura italiana e quella svizzera si è risolto in un rapporto positivo. «Per me il tunnel del Lötschberg è più di una via d’accesso rapida al Mediterraneo», ammette Barbara Egger-Jenzer, presidente del governo cantonale bernese. «Ha portato una ventata d’italianità nella nostra nordica patria, anche se non si è trattato di una facile conquista».
La prima tappa di questo percorso, ovvero la vita e le condizioni di lavoro dei minatori che scavarono il tunnel, è illustrata ne «L’epopea dei trafori alpini», volume curato da Tindaro Gatani e Graziano Tassello e pubblicato dalla CSERPE di Basilea per il centenario del dramma del Lötschberg. Dalle pagine emerge un particolare curioso: i funerali delle vittime non furono pacifici come le odierne commemorazioni, che vedono gli uni accanto agli altri i rappresentanti della chiesa e dei sindacati. La lotta ideologica che opponeva le organizzazioni socialiste alle missioni cattoliche non si fermò nemmeno al momento di portare al cimitero l’unico corpo recuperato. «Non si voleva che l’acqua santa bagnasse la bara», si legge nel diario di una suora, «non volevano il drappo nero, non la croce, non il crocifisso e tanto mento il sacerdote… Il missionario fu minacciato durante la messa, dovette ritirarsi e chiudersi in casa senza accompagnare il feretro al camposanto».
Quanto importanti siano stati sia i missionari, sia le organizzazioni socialiste per i minatori è testimoniato anche dalla mostra fotografica In memoriam, curata dalla storica Susanne Ulrich. La mostra non si concentra solo sul lavoro in galleria, ma anche sulla vita fuori dal tunnel, una vita in cui ci si sposava, nascevano figli e si sperava in un futuro migliore.
Il 24 luglio 1908 venticinque minatori italiani persero la vita mentre lavoravano alla costruzione del tunnel ferroviario del Lötschberg. L’incidente si verificò alle 2 e 30 di notte, a 2,6 km dal portale di Kandersteg.
In seguito al brillamento di una carica esplosiva, si riversò in galleria una colata di acqua e fango che uccise i minatori. Solo un corpo fu recuperato e sepolto nel cimitero di Kandersteg. L’incidente ebbe ampia eco nella stampa svizzera e italiana.
L’esplosione aveva scoperto uno strato geologico molto friabile, di cui i minatori ignoravano l’esistenza, perché non erano stati fatti sondaggi prima d’incominciare gli scavi. La zona si rivelò poi così pericolosa da costringere gli ingegneri a modificare il tracciato della galleria per aggirarla. Per questo, il tunnel risultò di un chilometro più lungo del previsto (14,6 km) e assunse una curiosa forma ad esse.
La costruzione del traforo del Lötschberg iniziò nel 1906 e si concluse nel 1913. Gli incidenti sul lavoro costarono la vita a 116 persone; altri 13 operai morirono in una valanga che al portale sud della galleria investì la pensione in cui cenavano.
Gli operai venivano quasi tutti dall’Italia. Gli svizzeri e i francesi occupavano posizioni superiori. A Kandersteg, un villaggio di 445 abitanti, nel 1908 si trovavano 2’664 italiani. Tra di loro non solo minatori, ma anche donne e bambini, preti e suore.
Malgrado la disgrazia del 1908, il Lötschberg si rivelò un cantiere con condizioni di lavoro migliori di altri. Trent’anni prima, nella galleria del San Gottardo morirono 307 persone.
La più grave disgrazia che colpì l’emigrazione italiana in Svizzera non si verificò in galleria, ma a Mattmark, dove nel 1965 una massa di ghiaccio e detriti investì gli operai impegnati nella costruzione di una diga. Degli 88 morti, 56 erano italiani.
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