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A Milano in un campo rom, sotto un ponte, tra i topi

La vita di Ulisse, rom rumeno: crescere in mezzo ai topi, con le auto che corrono sopra la sua testa (servizio fotografico per swissinfo di Chiara Tiraboschi) Chiara Tiraboschi

Periferia nord di Milano. Povertà estrema, assenza di igiene, illegalità diffusa: così si presenta la situazione dei campi rom, dove i rumeni sopravvivono nelle baracche, tra le macerie. Alla Svizzera nessuno pensa veramente.

“Non è la terra che si attacca a noi. Siamo noi che ci attacchiamo alla terra”. Sono le parole di Mirko, un rom italiano che da tantissimi anni vive alla periferia sud di Milano con tutta la sua famiglia. Lui ha sempre lavorato, non ha mai rubato, paga tutto quello che deve pagare. Insomma, è in regola.

Eppure poche settimane fa, 75 agenti sono piombati nel suo campo, perfettamente autorizzato. Perquisizioni, impronte digitali (bambini compresi), interrogatori: non credeva ai suoi occhi.

Che umiliazione per Mirko, che crede nella famiglia, nel rispetto, nella solidarietà. Perché quando vai di là, nel regno dei morti, a che cosa sarà servito accumulare beni materiali? Attaccarti alla terra che non sarà mai tua per sempre?

La terra, appunto, con la quale i rom – anche quelli ormai stanziali – hanno un rapporto tutto speciale, fatto di complesse declinazioni e di fitte tradizioni. Lo sanno bene i due dirigenti dell’Opera Nomadi: Maurizio Pagani, esperto in politiche pubbliche, e Giorgio Bezzecchi, rom italiano esperto in mediazione culturale (cfr. audio delle interviste, ndr).

Quotidianamente lottano contro i pregiudizi e tentano – in un clima politico ostile, tra mille difficoltà, l’indolenza delle autorità e la desolata assenza di politiche pubbliche sociali – di tutelare i diritti delle comunità zingare come soggetti e non oggetti di politiche assistenzialiste.

Prima di partire verso la periferia nord di Milano, quartiere Bovisa, dove sotto il Ponte Bacula si è insediato un piccolo campo rom di rumeni, ci avvisano: “Non sappiamo come andrà, se sarà possibile avvicinarci, parlare con loro e scattare delle foto”.

Improvvisare la vita tra cumuli di spazzatura

Camminiamo in mezzo alla neve, cercando di evitare sterco e fango. Per terra carrelli di supermercati, giocattoli rotti, bottiglie vuote e un silenzio spettrale. Il campo rom – due piccolissimi insediamenti su una porzione disgraziata di terra umida – è poco oltre, tra cumuli di pattumiera. Ci avviciniamo lentamente, Giorgio e Maurizio parlano per primi. L’incontro, si può fare.

Una giovane donna, occhioni blu come il cielo e due dentoni d’oro che irrompono nel suo sorriso, ci guarda con dolcezza. Vicino a lei il piccolo Ulisse e il marito Daniel, che si mette in posa per una foto. Dal cunicolo freddo e scuro, sbuca Anghel, che si fa strada tra i blocchi di cemento. Ha in mano e sotto il braccio tre valigie ed è seguito dalla madre, coperta di stracci, sguardo durissimo e pieno di rabbia.

“Dove vai?”, chiedo. “Andiamo dall’altra parte – mi dice Angehl – qui è pieno di topi, per i miei fratelli piccoli è pericoloso”. Anghel lavora e guadagna 800 euro al mese. Se in Romania ci fosse lavoro non sarebbe qui. “Perché, cosa credi? Che mi faccia piacere vivere qui”? E con lo sguardo guarda le baracche, brandelli di legno, cartone e plastica che stanno in piedi per miracolo. Nessun servizio igienico, niente luce, niente energia elettrica. I più fortunati hanno un fornellino a gas, che non sempre funziona.

Un limbo senza speranze. Ma la Svizzera com’è?

Arriva Luca, un omone agitato, 35 anni. Parla tanto, ad alta voce. Le baracche si animano, qualcuno esce, gli uomini, naturalmente. Luca vive in Italia da dieci anni. E vive così, di sgombero in sgombero.

Ha la residenza, ma non una casa. Il comune non gliela dà. Sua moglie tra poco metterà al mondo un altro bambino. Che imparerà a conoscere molto da vicino l’immondizia, la precarietà, l’insalubrità, la frustrazione e lo sguardo delle persone che pensano, senza dirlo, “quanto mi fai schifo”.

Il cunicolo si riempie di voci. C’è chi grida: “Cercatemi una moglie, così mi sposo”. E c’è chi fa sapere che gli servono 32 euro per andare dal medico. Anghel vuole sapere come è la Svizzera. “Qui in Italia c’è Roberto Maroni (ministro italiano dell’Interno, ndr) che è cattivo. E in Svizzera”? Gli spieghiamo che anche dall’altra parte della frontiera non si scherza. E che anche la Svizzera ha i suoi Maroni.

I rom sono talmente occupati nell’inventare quotidianamente forme precarie e provvisorie di sopravvivenza, che non badano molto alle prospettive che si apriranno in Svizzera, se la votazione dell’8 febbraio sull’estensione della libera circolazione delle persone a Romania e Bulgaria sarà approvata dal popolo.

Cornel, che si muove con l’aiuto di una stampella, sa che la Svizzera è piccola e che gli spazi per improvvisare insediamenti abusivi sono molto limitati, contrariamente a Milano, dove le aree industriali dismesse e le “terre di nessuno” sono comunque più spaziose. La Svizzera per loro rimane solo un nome, sentito sotto il Ponte Bacula e che l’eco si è già portato via.

La trappola dei pregiudizi e delle paure

“I campi nomadi – spiegano Maurizio e Giorgio, autori di una recentissima pubblicazione sui rom – non sono pattumiere sociali, come qualcuno afferma. La socialità presente all’interno dei campi è forse l’unico antidoto all’isolamento. Ma è chiaro che davanti a questi giovani, il futuro sembra essere già scritto: relegandoli in un limbo al di fuori dello spazio pubblico vitale, verso una trappola mortale di un abbraccio devastante con la devianza diffusa e i suoi modelli”.

In un clima di ostilità e di razzismo che è sempre meno velato, al di qua e al di la della frontiera italo-svizzera, la questione dei rom assume infatti il contorno di un capro espiatorio. In Italia la presenza di rom rumeni non è riconducibile alla libera circolazione delle persone e la delinquenza è piuttosto legata a situazioni di illegalità.

Alla vigilia della votazione dell’8 febbraio, l’Organizzazione svizzera di aiuto ai rifugiati ha sentito l’esigenza di lanciare un appello in favore delle popolazioni rom, dipinte dalla destra populista svizzera come bande di ladri e mendicanti. Oliando così gli ingranaggi della macchina infernale della xenofobia e perdendo di vista il vero senso della votazione dell’8 febbraio: l’apertura graduale e contingentata del mercato del lavoro a Romania e Bulgaria.

swissinfo, Françoise Gehring, Milano

Secondo un documento dell’amministrazione federale, l’estensione della libera circolazione delle persone alla Romania e alla Bulgaria non aumenta sostanzialmente in Svizzera il rischio di maggiore delinquenza.

I cittadini rumeni e bulgari sono autorizzati, già dal 2004, a soggiornare in Svizzera senza bisogno di un visto e per un periodo di tre mesi. Possono quindi entrare nel nostro Paese anche cittadini rom di nazionalità rumena.

In Svizzera il numero di cittadini rumeni è basso e non rappresenta un problema di sicurezza particolare. Attualmente, soggiornano legalmente in Italia oltre mezzo milione di rumeni, in Svizzera sono invece meno di 4 mila.

L’apertura del mercato del lavoro alla Romania e alla Bulgaria sarà graduale: 362 permessi di soggiorno di lunga dura nel primo anno per giungere ad un massimo di 2016 autorizzazioni nel 1207.

Secondo Maurizio Pagani, dell’Opera Nomadi, il recente censimento ha permesso almeno di ristabilire dei dati ufficiali sulla presenza dei rom.

A Milano vivono sostanzialmente tre grandi gruppi: rom e sinti italiani, rom dell’area balcanico-jugoslava e rom di origine rumena.

A Milano e dintorni vivono 4 mila rom, mentre il numero in tutta la Provincia sale a 11-13 mila. I campi nomadi autorizzati sono undici, mentre sono una ventina gli insediamenti abusivi.

I rom che provengono dalla Romania vivono in condizioni disumane, in zone industriali dismesse dell’hinterland milanese. Costituiscono circa il 40% del totale della popolazione complessiva.

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