Aiuto al suicidio: «Il governo non ascolta la popolazione»
Il consiglio federale è diviso sull'opportunità di sottoporre a regole più severe l'assistenza al suicidio in Svizzera. Secondo Andreas Blum, ex portavoce dell'associazione Exit, su questo tema i ministri non sono in sintonia con la volontà popolare.
Capita raramente che il governo comunichi apertamente il proprio disaccordo su un tema discusso al proprio interno. È quanto accaduto lo scorso 17 giugno in merito alla delicata questione dell’aiuto al suicidio.
In quell’occasione, il consiglio federale ha dichiarato «di avere opinioni contrastanti e ha perciò deciso di elaborare un progetto di consultazione con diverse varianti da discutere» sulle possibili restrizioni legali e un eventuale divieto dell’assistenza organizzata al suicidio.
Swissinfo.ch ha interpellato a questo proposito Andreas Blum, ex parlamentare e già attivo come portavoce presso l’organizzazione di aiuto al suicidio Exit.
swissinfo.ch: Molte persone faticano a concepire l’aiuto al suicidio. A suo parere, in che misura può essere eticamente sostenibile?
Andreas Blum: Il diritto della persona alla propria morte fa parte dei diritti dell’uomo, costituisce l’espressione del diritto all’autodeterminazione e il riconoscimento della dignità umana.
Le persone non possono decidere se nascere o meno, ma devono accettare questo dono. Tra le caratteristiche di un regalo vi è però quella di poter essere restituito: è infatti una mia profonda convinzione che l’uomo debba stabilire da solo quando il proprio ciclo vitale è giunto al termine. Decidere sulle questioni esistenziali è parte integrante della natura umana.
Di conseguenza, aiutare le persone che si trovano in situazione giudicata – da loro – soggettivamente senza speranza non è soltanto sostenibile, bensì necessario dal profilo etico. Si tratta anche, per usare un’espressione forte, di un atto di carità cristiana.
swissinfo.ch: Il governo svizzero è profondamente diviso in merito all’aiuto al suicidio. Come spiega questa situazione?
A.B.: Questo non mi sorprende, ma resta comunque razionalmente poco comprensibile. Da oltre sessant’anni abbiamo una regolamentazione assai liberale in materia di aiuto al suicidio, e sottolineo il termine «aiuto». Di questo la Confederazione dovrebbe essere fiera.
L’aspetto della situazione attuale che mi irrita maggiormente è la constatazione che ancora una volta l’esecutivo non tiene conto della volontà popolare in merito alla questioni esistenziali. Tre quarti degli abitanti del paese sono infatti chiaramente favorevoli a questa pratica.
Inoltre, vi sono sempre alcuni fondamentalisti – segnatamente da parte cattolica – che vogliono andare in controtendenza. A farne le spese sono le persone rese insicure da questo clima: il governo si sta comportando in modo poco responsabile.
swissinfo.ch: L’esecutivo intende porre in consultazione due varianti. Una delle proposte è la proibizione totale di organizzazioni come Exit o Dignitas.
A.B.: È una una proposta assurda. Si tratterebbe di un pericoloso passo indietro, di un allontanamento da quella politica liberale che ha permesso a molte persone di morire in modo dignitoso e sereno.
Dal punto di vista dei contenuti, a mio parere non sussiste alcun motivo per modificare la regolamentazione attuale. Sono comunque convinto che un divieto delle associazioni d’aiuto al suicidio non avrebbe alcuna possibilità di successo in parlamento.
swissinfo.ch: L’altra proposta consiste nel porre limiti giuridici alle organizzazioni in questione.
A.B.: Sono una delle prime persone ad avere evidenziato fin dall’inizio la necessità di limitazioni precise, proprio per evitare gli abusi. In particolare, ritengo che ogni associazione di aiuto al suicidio finalizzata al lucro dovrebbe essere vietata dalla legge.
Una cosa è infatti certa: qualsiasi forma d’aiuto al suicidio perderebbe ogni credibilità, se il decesso di una persona diventasse un’opportunità commerciale.
Vi sono inoltre altre disposizioni giuridiche necessarie: queste particolari organizzazioni agiscono in una sorta di zona grigia, molto sensibile sia dal profilo etico, sia dal profilo giuridico. Laddove sussiste una grande libertà, anche il senso di responsabilità dev’essere elevato: oggigiorno, ciò avviene soltanto in modo limitato.
swissinfo.ch: L’associazione Dignitas ha reso famoso il cosiddetto «turismo della morte». Questa tendenza costituisce un problema per la Svizzera?
A.B.: Si tratta di una questione assai delicata e complessa. A livello astratto, chi è favorevole all’eutanasia non può fare distinzioni in base alla nazionalità. Ciononostante, il problema presenta parecchi aspetti secondari relativi all’applicazione pratica.
Concretamente, se questa pratica dovesse diffondersi, saremmo sommersi dalle richieste che non potremmo gestire adeguatamente. Inoltre, vi è un problema che mi inquieta particolarmente: chi potrebbe permettersi di recarsi in Svizzera per morire? La risposta è chiara: soltanto le persone che se lo possono permettere. Così facendo, avremmo un sistema classista inaccettabile dal punto di vista etico.
La piccola Svizzera non può risolvere da sola questo problema globale. Esso può essere affrontato efficacemente soltanto se gli altri paesi adotteranno una gestione liberale della questione, adattando le rispettive legislazioni alla realtà.
Christian Raaflaub, swissinfo.ch
(traduzione e adattamento: Andrea Clementi)
Eutanasia attiva diretta: porre attivamente e direttamente termine alla vita di un moribondo, su sua esplicita richiesta, al fine di liberarlo da sofferenze insopportabili e inevitabili.
Eutanasia attiva indiretta: impiego di mezzi per alleviare le sofferenze, i quali tuttavia come effetto secondario possono abbreviare la vita.
Eutanasia passiva: rinuncia ad avviare o sospensione di terapie di sostentamento vitale.
Aiuto al suicidio: una persona terza oppure un’organizzazione di aiuto al suicidio procura una sostanza letale al paziente, il quale la ingerisce senza l’aiuto di terzi.
Secondo un sondaggio giornalistico realizzato nell’aprile del 2009, tre quarti della popolazione sarebbe favorevole all’assistenza al suicidio.
Il 56,5% degli interpellati pensa di considerare l’ipotesi del suicidio in caso di grave malattia senza possibilità di guarigione e miglioramento.
Per quanto concerne il «turismo della morte», i pareri sono equamente divisi: il 45% circa delle persone è favorevole; i contrari sono altrettanti.
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