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Democrazia nel 2016: (quasi) tutto è bene quel che finisce bene

Un chiaro "no" è emerso dalle urne in Italia in occasione del referendum costituzionale. Una disfatta per il premier Matteo Renzi. AFP

Alexander Van der Bellen eletto nuovo presidente della Repubblica austriaca, il premier italiano Matteo Renzi costretto alle dimissioni dopo la bocciatura popolare della sua riforma costituzionale: sono questi gli ultimi eventi importanti di un 2016 molto movimentato dal punto di vista politico. Non si può certo parlare di “stanchezza democratica”. Al contrario: ovunque nel mondo i cittadini sono sempre più attivi.


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Non è stato un 4 dicembre privo di eventi. I cittadini austriaci hanno scelto – al terzo tentativo! –  il loro nuovo capo di stato, mentre gli italiani si sono espressi sulla più grande riforma costituzionale degli ultimi decenni. E in tutt’e due i casi, l’affluenza alle urne è stata da primato. In Italia il tasso di partecipazione ha raggiunto il 68,5%, in Austria il 74,1%, ancora più alto rispetto alle due volte precedenti, in maggio (68,5%) e in giugno (72,7%). 

Alexander Van der Bellen, il nuovo presidente della Repubblica austriaca. AFP

Sono cifre impressionanti. Tuttavia, l’alta partecipazione degli italiani e degli austriaci non ha in sé nulla di straordinario. Il 2016 è stato caratterizzato ovunque da importanti interventi popolari in politica, come mai accaduto nella storia. E, nella maggior parte dei casi, la popolazione non ha preso decisioni irrazionali e avventate come gli “opinion-leader” ai quattro angoli del globo vogliono far credere.

Tutto è cominciato in gennaio, con la storica elezione a Taiwan della prima presidente donna e con il successo delle forze democratiche di questo stato insulare asiatico. Alla fine di febbraio, in Svizzera, un controverso referendum sulla cosiddetta “attuazione” dell’iniziativa della destra conservatrice sull’espulsione dei criminali stranieri ha sollevato molte questioni fondamentali sullo stato di diritto. Anche in questo caso la partecipazione è stata alta: 64%, una percentuale ben superiore a quella che si registra normalmente in occasione delle votazioni federali. 

Le urne nel 2016 hanno prodotto risultati molto diversi da un punto di vista politico e ideologico. Essenzialmente, tuttavia, l’anno che sta per concludersi ci ha impartito la seguente lezione: i plebisciti e la democrazia diretta sono due cose completamente diverse.    

Quattro plebisciti, quattro sconfitte.

Un’affermazione che di primo acchito può sembrare un po’ astratta e sterile, ma che si può facilmente illustrare con l’aiuto di quattro votazioni popolari che hanno avuto luogo nel corso di quest’ultimo anno. Quattro governi o capi di stato hanno tentato, attraverso un plebiscito (una consultazione popolare organizzata dall’alto), di rafforzare il proprio potere e la propria legittimità politica. Sorpresa: nessuno dei quattro è riuscito nell’intento.

Il premier italiano Matteo Renzi ha messo in gioco il suo futuro politico con il referendum costituzionale. AFP

Il primo esempio è il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea nel mese di giugno (52% di “no”), seguito dalla consultazione popolare sull’inasprimento delle politiche migratorie in Ungheria, fallita a causa del forte astensionismo, che non ha permesso di convalidare il risultato.

Nello stesso momento, il 52,2% dei colombiani respingeva l’accordo di pace raggiunto fra il governo e le Forze armate rivoluzionarie FARC.

L’ultimo di questi plebisciti mancati è il rifiuto da parte degli italiani della riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi.

Nei casi sopracitati , i dirigenti politici hanno fatto male i loro calcoli: hanno sopravvalutato il proprio potere e hanno sbagliato. Le conseguenze di queste sconfitte sono comunque molto diverse fra loro. Mentre il primo ministro britannico David Cameron e il suo omologo italiano Matteo Renzi hanno presentato le dimissioni, il presidente ungherese Viktor Orban, che non dà molto peso alla democrazia, non ha esitato a definire referendum fallito come “un grande successo” del suo governo.

In Colombia, infine, il presidente Juan Manuel Santos è riuscito a far legittimare la sua sconfitta alle urne dal Comitato per il Nobel norvegese, che gli consegnerà il riconoscimento il prossimo 10 dicembre a Oslo. E il nuovo accordo di pace rielaborato da Juan Manuel Santos non sarà più sottoposto al voto del popolo e toccherà al parlamento ratificarlo.

Ancor più democrazia è possibile

I fallimenti di questi plebisciti sono stati in certi casi molto dolorosi. Il caso italiano potrebbe avere conseguenze importanti su tutta la Zona euro, della quale il Bel Paese rappresenta la terza potenza economica.

I plebisciti sono strumenti apprezzati dai dirigenti con tendenze autoritarie. In una democrazia moderna e rappresentativa, bisognerebbe evitare di ricorrervi. I plebisciti accrescono unilateralmente il potere, possono essere facilmente manipolati e rimettono in discussione le basi della democrazia moderna: lo stato di diritto, la separazione dei poteri e la protezione delle minoranze.

È per questo che molti cittadini britannici, ungheresi, colombiani e italiani hanno risposto picche ai loro leader. Rinunciare ai plebisciti non significa tuttavia rinunciare ai referendum e agli altri strumenti della democrazia diretta. Al contrario: nelle democrazie moderne e rappresentative, è necessario sviluppare dei metodi di partecipazione che permettano ai cittadini di esprimersi tra un’elezione e l’altra.

Grazie al diritto d’iniziativa e di referendum, le problematiche importanti possono essere inserite nell’agenda politica e decisioni importanti possono essere prese. Ciò contribuisce a rendere le nostre democrazie rappresentative un po’ più rappresentative.

A posteriori, l’anno democratico 2016 ci può sembrare drammatico e conflittuale. Ma se lo si osserva più in dettaglio, il numero record di votazioni ed elezioni che si sono tenute in tutto il mondo dovrebbe renderci più fiduciosi. È ancora possibile rafforzare la democrazia.

Traduzione dal tedesco, Zeno Zoccatelli

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