Ex detenuti palestinesi: un aiuto per reinserirli
L'aiuto svizzero alla Palestina passa anche attraverso iniziative di nicchia, come il programma di reinserimento sociale degli ex detenuti.
Nel corso del suo viaggio in Medio oriente, la ministra degli esteri Micheline Calmy-Rey ha visitato questo ed altri progetti elvetici d’aiuto umanitario.
Nelle prigioni israeliane si trovano ancora 8000 palestinesi. La notizia della prossima liberazione di 900 detenuti, annunciata dalle autorità israeliane, è stata accolta con gioia.
Certo, un’eventualità del genere eserciterebbe una pressione supplementare sul programma di reinserimento degli ex detenuti, lanciato con il sostegno attivo della Svizzera nel 1994, sull’onda del processo di pace di Oslo.
Un gesto di solidarietà e speranza
Il centro di formazione di Abu Djihad, edificato nel 1998 a Ramallah, è il risultato concreto di questo programma. Cofinanziato dalla Svizzera con una somma di 1,5 milioni di franchi l’anno, il centro ha dato una formazione a 6000 persone, oggi attive in diversi settori, dall’elettronica alla meccanica passando per il design grafico su computer.
È proprio a questo centro di formazione che Micheline Calmy-Rey ha riservato una delle sue prime visite. Secondo Mario Carera, responsabile dell’ufficio della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) a Gaza e in Cisgiordania, si è trattato di un gesto molto importante.
«Rendendo visita ai nostri partner palestinesi a Ramallah, a Betlemme e a Gaza, la responsabile della diplomazia elvetica – che è anche a capo del settore della cooperazione – ha lanciato un messaggio di speranza e solidarietà. È straordinario».
Proprio l’aiuto al reinserimento sociale degli ex detenuti può essere considerato una delle iniziative più importanti dell’aiuto elvetico ai palestinesi. Si tratta di un programma che deve molto ad Annick Tonti, la persona che ha saputo portarlo avanti.
Questione d’immagine e competenze
Nel 1994, Annick Tonti viene inviata a Gerusalemme come direttrice dell’ufficio locale della DSC e come rappresentante del governo svizzero presso l’Autorità palestinese, eletta da poco.
Ma Annick Tonti non arriva certo in una zona che non conosce. Nel 1993, su richiesta dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), allora guidata da Yasser Arafat, erano stati creati dei contatti per affrontare la problematica del reinserimento degli ex detenuti. È allora che parte la riflessione sul “modus operandi” più opportuno.
«Sapevamo già che, in seguito al processo di Oslo, Israele avrebbe liberato dei prigionieri palestinesi. L’OLP ha chiesto la nostra collaborazione per affrontare la questione», ricorda Annick Tonti, oggi a capo della divisione Medio oriente e Africa del nord della DSC a Berna.
Perché proprio la Svizzera? Annick Tonti cita due motivi. Il primo fa riferimento al ruolo del Comitato internazionale della Croce rossa (CICR), la sola organizzazione ad avere accesso alle prigioni israeliane e ad occuparsi dell’assistenza e della difesa dei prigionieri palestinesi. Anche se il CICR è un’organizzazione internazionale, la sua immagine – così come la sua sede di Ginevra – è legata alla Svizzera.
D’altro canto, le competenze elvetiche in materia non erano sconosciute ai palestinesi. «La Svizzera aveva già realizzato un programma simile in Mozambico, dove si era impegnata in favore della reintegrazione nella vita civile dei gruppi di guerriglieri e dei militari», spiega Annick Tonti.
Dalla formazione alla disoccupazione
L’idea del programma, insiste Annick Tonti, è interamente palestinese. «Noi eravamo lì per consigliarli, per contribuire alla realizzazione del progetto. Abbiamo stilato un budget e da quel momento l’Unione europea si è aggiunta a noi».
E le competenze svizzere continuano ad essere utili oggi come ieri. «Attualmente», racconta Mario Carera, «2000 ex detenuti frequentano il centro di formazione Abu Djihad».
Ma che senso dare a questo corso di reinserimento sociale, se le condizioni di vita dei palestinesi continuano a deteriorarsi? «La disoccupazione colpisce la metà della popolazione di Gaza e il 30% degli abitanti della Cisgiordania, senza contare la disoccupazione nascosta», osserva Mario Carera.
Per Annick Tonti, il programma è utile anche per permettere a giovani nel fiore degli anni di dare libero corso alle emozioni, in modo da poter raccontare in seguito il loro vissuto. Per farlo, la maggior parte ha bisogno di un sostegno psicologico.
Evitare le radicalizzazioni
«Sappiamo come deve essere un uomo nel mondo arabo», spiega Annick Tonti. «Quando esce di prigione, non deve arrivare a casa in lacrime. Eppure, quando lasciano il carcere, sono in lacrime!»
L’altra funzione del programma di reinserimento è chiaramente politica. «Vuole dare delle prospettive alla gioventù palestinese, per evitare che si radicalizzi», afferma Mario Carera.
Per la Svizzera, conclude Annick Tonti, questo è un modo per contribuire all’edificazione di una pace durevole nella regione.
swissinfo, Jugurtha Aït-Ahmed, Ramallah
(traduzione, Doris Lucini)
La Svizzera ha un budget di 25 milioni di franchi l’anno per il programma di aiuto alla Palestina.
15 milioni di franchi sono destinati al CICR, al Programma alimentare mondiale (PAM) e all’organizzazione ONU di aiuto ai rifugiati (UNRWA).
10 milioni vanno a sostegno di ONG palestinesi attive in ambito sociale (reinserimento degli ex detenuti), ambientale e dei diritti umani.
In occasione del processo di Oslo, la Svizzera ha deciso di partecipare alla ricostruzione della Palestina e di contribuire al processo di pace nella regione.
In seguito ad una decisione del governo svizzero, è stato realizzato un programma di aiuto alla Palestina. È attivo dal giugno del 1994.
Situato a Gerusalemme Est, l’ufficio gestito dalla Direzione dello sviluppo e della cooperazione dà lavoro a 8 persone. Due sono svizzere.
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