“La fretta è la trappola numero uno”
Helene Budliger-Artieda è la direttrice della Segreteria di Stato dell'economia della Svizzera (SECO). "Sentiamo la pressione, ma ci prendiamo il tempo necessario", dice a proposito dei negoziati con l'Unione Europea.
SWI swissinfo.ch: Espatriati svizzeri come Louis Chevrolet o César Ritz hanno gettato le basi di marchi iconici. Ci sono ancora personaggi analoghi?
Helene Budliger-Artieda: Sì, ovunque ci sono imprenditori e imprenditrici svizzeri straordinari che dirigono anche piccole aziende. In molti Paesi dove ho vissuto, ho conosciuto un macellaio e un panettiere svizzeri di successo. Hanno fatto fortuna grazie ai loro prodotti innovativi e di qualità.
In Thailandia, ad esempio, ho incontrato due giovani imprenditori che costruiscono toilette. Non è proprio ciò che ci si aspetta da un’azienda svizzera, ma hanno successo con il loro prodotto.
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In Sudafrica, invece, ho conosciuto laureati del Politecnico federale di Zurigo che sviluppano materiali da costruzione innovativi adatti al clima locale. Il loro obiettivo non è conquistare il settore del lusso, né impegnarsi in ambito sociale, bensì soddisfare le esigenze della classe media inferiore. Questa classe sociale non ottiene alcun sostegno statale e molti non possono permettersi una casa. Chissà se questi nomi di imprenditori e innovatori diventeranno famosi.
Ha viaggiato molto e ha fatto molta strada: Helene Budliger-ArtiedaCollegamento esterno è entrata a far parte del Dipartimento federale degli affari esteri nel 1985. Nel 2022 è stata nominata Segretaria di Stato per l’economia (SECO) ed è la funzionaria economica di più alto grado della Svizzera.
Come diplomatica ha lavorato in Nigeria, a San Francisco, in Perù, Colombia, Sudafrica. L’ultima sua tappa è stata la Thailandia.
Oggi è responsabile della politica economica estera svizzera e della gestione delle esportazioni e delle sanzioni. In Svizzera, conduce le discussioni con i Cantoni e le parti sociali in merito all’UE. Fa da moderatrice tra i sindacati e i datori di lavoro che si trovano su posizioni contrapposte per quanto riguarda la protezione dei salari.
Riconosce un modello, qualcosa di tipicamente svizzero, quando visita aziende elvetiche all’estero?
Sì, si mettono in evidenzia grazie alla qualità o all’innovazione dei loro prodotti, spesso per entrambe le caratteristiche. In generale, la Svizzera deve puntare sulla qualità e sull’innovazione per essere competitiva. Infatti, non possiamo sbaragliare la concorrenza con il prezzo o la produzione di massa.
Un’altra caratteristica tipica è il fatto che dobbiamo assicurare ogni cosa. In un certo senso, questo vale anche per le aziende. Nell’incertezza di questi anni, è un vantaggio che le nostre aziende agiscano guardando al futuro. È ciò che le rende più resilienti. Lo abbiamo visto durante la pandemia, e poi con le conseguenze della guerra d’aggressione della Russia contro l’Ucraina. Le ditte elvetiche dimostrano costantemente una sorprendente resilienza.
Per il fatto di aver messo da parte dei risparmi?
Oppure perché hanno semplicemente un buon senso degli affari, ponderando correttamente rischi e opportunità, ma forse anche perché sanno capire quando è meglio non lanciarsi in un’impresa. Inoltre, di solito sono molto vicine ai loro affari.
Che cosa intende?
Mi convince la loro vicinanza con la clientela. Anche le aziende svizzere vogliono naturalmente guadagnare, ma sanno molto bene che operano nella e per la società. E così sono consapevoli di quanto siano importanti i loro obblighi nei confronti del loro personale.
Al momento, la Confederazione sostiene le aziende ad accedere al mercato ucraino. A questa iniziativa sono stati destinati 500 milioni di franchi della cooperazione allo sviluppo. Ci sono abbastanza ditte disposte a sostenere questi sforzi?
Certo. Ci sono alcune aziende svizzere che operano da anni in Ucraina e che continuano a essere presenti nonostante la guerra. Ad esempio, è molto importante la presenza di una ditta che costruisce finestre. I suoi vetri di sicurezza sono fondamentali per gli ospedali e le scuole dell’infanzia.
“Ci sono alcune aziende svizzere che operano da anni in Ucraina e che continuano a essere presenti nonostante la guerra.”
Un’altra azienda è specializzata nella costruzione di bunker. Un altro progetto in fase di attuazione consiste nel sostegno di una ditta che posa binari ferroviari. L’Ucraina è un’esportatrice di cereali fondamentale e il trasporto su rotaia sta diventando sempre più importante, viste le difficoltà nei porti.
Quindi sono soprattutto le aziende che sono rimaste in Ucraina ad approfittare di questo sostegno finanziario?
No, per una seconda fase, e se c’è interesse da parte dell’Ucraina, pensiamo di allargare le forniture svizzere. Dobbiamo però creare il quadro giuridico. Dal momento in cui si è sparsa la voce che stiamo creando uno strumento su misura per le aziende svizzere, sono nate nuove idee da parte di ditte nazionali. Alla fine dell’anno è prevista una missione economica con queste aziende. L’interesse di prendervi parte è grande.
A differenza di alcune voci critiche, non vede quindi alcun problema nell’impiegare fondi destinati alla cooperazione internazionale per la promozione economica svizzera?
L’obiettivo non è creare posti di lavoro in Svizzera. L’importante è impiegare i 500 milioni di franchi per promuovere lo sviluppo in Ucraina. Questo progetto non sarà molto diverso da quelli che abbiamo promosso finora in ambito di cooperazione economica allo sviluppo. Siamo abituati a valutare con attenzione le condizioni quadro affinché portino alla creazione di posti di lavoro in loco. Il valore aggiunto deve avvenire possibilmente sul posto.
A livello generale va considerato il fatto che prossimamente fluirà molto denaro verso l’Ucraina. Le autorità locali non avranno le capacità necessarie per gestire questo flusso finanziario. Per questo motivo sono convinta che i 500 milioni di franchi che impiegheremo in collaborazione con le aziende locali saranno ottimamente amministrati. Per quanto riguarda la sostenibilità del progetto, una ditta rimarrà sul posto quando i programmi di ristrutturazione saranno conclusi.
Cosa la fa essere così sicura?
La soglia è l’ingresso al mercato. Se riescono a superarla, buona parte delle aziende rimane. È anche indubbio che, al momento, nessuna ditta va in Ucraina di propria iniziativa. Se però c’è un’assicurazione, allora le cose cambiano. Noi offriamo una specie di assicurazione, non di tipo classico, ma sotto forma di ordine di acquisto.
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Cambiamo prospettiva: quanto è attrattiva la Svizzera per le aziende straniere?
È attrattiva, ma quando incontro ministre e ministri all’estero ricordo loro che possiamo costruire anche da loro impianti di produzione. Infatti, dove potremmo ancora aprire un grande parco industriale in Svizzera? Non abbiamo più zone edificabili, né personale. La popolazione elvetica sente lo stress da sovraffollamento. Non siamo mai rimasti così a lungo in coda sulle strade come oggi.
Vuol dire quindi che la Svizzera non ha più bisogno di aziende straniere?
Sanno che in Svizzera c’è la piena occupazione. Siamo interessati soltanto a ditte che producono con standard di elevata qualità, che sono innovative e creano buoni posti di lavoro. Ovvero, aziende che possono proporre un valore aggiunto all’economia elvetica. Non ho nulla da ridire se qualcuno intende aprire, ad esempio, un nuovo studio di bellezza o un centro per la cura delle unghie. Siamo un Paese libero. Ma non è ciò che ci fa fare un balzo avanti da un punto di vista strategico. Ciò che non vogliamo sono le società bucalettere.
Da anni, il dossier europeo è fermo al palo, anche se l’UE è fondamentale per l’economia svizzera. Dal 2022, come Segretaria di Stato, ha un ruolo centrale in Svizzera ed è considerata la figura più impegnata nelle trattative con Bruxelles…
…è un’esagerazione. Ad esempio, il nostro capo negoziatore Patric Franzen sta facendo un lavoro fantastico. Lavora giorno e notte al dossier. In molti dipartimenti, persone competenti si impegnano affinché i negoziati con l’UE portino a un buon risultato.
Ma qualcuno deve fare il lavoro pesante in Svizzera e questa è lei.
Sì, ma è un compito che non svolgo da sola. In diversi processi, la SECO ha un ruolo che assumiamo volentieri e che svolgiamo con impegno.
State facendo passi avanti? Ad esempio con i sindacati?
Noi parliamo di partner sociali, a cui appartengono anche i datori di lavoro. Il processo procede bene, ma è molto complesso. Nel limite delle nostre possibilità vogliamo fornire buoni argomenti alle negoziatrici e ai negoziatori e dare il nostro contributo al processo negoziale. Ci occupiamo delle misure di compensazione interne affinché a Bruxelles sia possibile rispettare il mandato negoziale stabilito.
La Svizzera ha abbastanza tempo per questi negoziati?
Che cosa significa tempo?
Il tempo che i partner sociali hanno bisogno per trovare una soluzione di politica interna. È in Svizzera che da anni non registriamo progressi in questo dossier e Bruxelles ci mette fretta.
Sì, c’è una certa pressione. Per il programma Horizon, le nostre negoziatrici e i nostri negoziatori sono riusciti a trovare una prima soluzione, ma non abbiamo ancora raggiunto il traguardo. Nel settore delle tecnologie mediche, le aziende svizzere hanno spese e costi amministrativi più elevati perché il riconoscimento reciproco non funziona più nonostante una legislazione equivalente.
“Siamo interessati soltanto a ditte che producono con standard di elevata qualità.”
Al contrario, i produttori dell’UE non forniscono più prodotti alla Svizzera a causa dei costi comparabili. Fare dei passi avanti in questo settore è quindi anche nell’interesse della Confederazione. Allo stesso tempo, i colloqui con le parti sociali proseguono in modo intenso.
Allora c’è una tabella di marcia per un nuovo accordo con l’UE
La premessa del Consiglio federale è: ci prendiamo il tempo necessario. La fretta è la trappola numero uno in un negoziato. La scadenza non è più importante della qualità del risultato. In gioco ci sono i nostri interessi, non solo per quanto riguarda la protezione salariale, ma anche, tra l’altro, in ambito di immigrazione, un tema molto sentito in Svizzera.
Traduzione di Luca Beti
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