Il governo difende le esportazioni di armamenti
Invocando motivi economici e di sicurezza nazionale, il governo respinge l'iniziativa "Per il divieto di esportare materiale bellico". I criteri di autorizzazione di queste transazioni vengono però definiti più rigorosamente.
L’iniziativa popolare promossa dal Gruppo per una Svizzera senza esercito (GSsE) è stata depositata il 21 settembre 2007 e firmata da quasi 110mila aventi diritto di voto. Chiede di ancorare nella Costituzione federale il divieto di esportazione e di transito attraverso la Svizzera di materiale bellico.
Il bando comprende le tecnologie che possono servire alla produzione di armamenti. Non sono invece sottoposti alla proibizione gli strumenti di sminamento umanitario, come pure le armi per lo sport e la caccia.
D’altra parte l’iniziativa chiede che la Confederazione sostenga e promuova gli sforzi internazionali nel campo del disarmo e del controllo degli armamenti.
Il testo stabilisce pure che se l’iniziativa fosse approvata in votazione popolare, la Confederazione dovrebbe sostenere le regioni e i dipendenti colpiti dalle conseguenze del bando.
Lo scopo dei promotori è di “mettere fine al commercio della morte” e di imprimere una svolta nella politica estera della Svizzera “verso una forte politica di pace”.
Gli iniziativisti mirano tra l’altro ad abolire le esportazioni di velivoli da addestramento militare, come i Pilatus, le armi di piccolo calibro e le loro munizioni, come pure materiale bellico obsoleto, non più impiegato dalle forze armate svizzere.
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Iniziativa popolare
Economia e difesa minacciate
Il governo svizzero condivide l’ideale di pace. È chiaro che “qualsiasi guerra è atroce e che si debba impedirla con tutti i mezzi possibili”. Ma questa iniziativa “è la via sbagliata” per perseguire tal fine, ha dichiarato mercoledì la ministra dell’economia Doris Leuthard, illustrando in una conferenza stampa il messaggio governativo al parlamento.
L’esecutivo si oppone per tre motivi essenziali: l’industria d’armamento svizzera sarebbe messa seriamente a repentaglio, un enorme know-how andrebbe perso, i costi per la Confederazione sarebbero esorbitanti, ha sintetizzato la consigliera federale.
L’industria bellica elvetica dipende fortemente dalle esportazioni. A titolo di esempio, Doris Leuthard ha ricordato che circa i due terzi degli introiti della Ruag provengono da vendite all’estero. Senza tali entrate i fabbricanti svizzeri sarebbero costretti a chiudere o a trasferirsi all’estero.
Stando ai calcoli presentati dal governo, in gioco ci sarebbero più di 5100 posti di lavoro. Tenuto conto dei divieti riguardanti i beni civili, questa cifra rischierebbe di essere raddoppiata.
Il Consiglio federale si preoccupa inoltre delle conseguenze regionali. Questa industria è concentrata in cinque cantoni: Nidwaldo, Zurigo, Turgovia, Berna e Lucerna, che sarebbero duramente colpiti, ha osservato la Leuthard.
La Confederazione rischia di dover sborsare oltre mezzo miliardo di franchi per sostenere i diretti interessati.Costi cui vanno aggiunti grosse perdite di entrate per il fisco e le assicurazioni sociali. Ciò inciderà dunque sulle casse pubbliche a tutti i livelli: federali, cantonali e comunali, ha sottolineato la ministra dell’economia.
Per il governo, minando le basi della produzione bellica, l’iniziativa minaccia anche la difesa nazionale. “Un’industria indigena di armamento è importante per la sicurezza nazionale. Se dovesse scoppiare una grave crisi politica o militare, o addirittura un conflitto, l’approvvigionamento di beni di equipaggiamento militare non sarebbe più garantito. Le industrie d’armamento straniere risponderebbero in priorità ai bisogni militari dei loro paesi e dei loro alleati”, ha messo in guardia Doris Leuthard.
Cinque criteri di esclusione e uno statu quo
Il Consiglio federale non ha elaborato un controprogetto all’iniziativa. Ma, seguendo le raccomandazioni della Commissione della gestione del Consiglio nazionale (Camera bassa), ha introdotto cinque nuovi criteri esclusivi nell’Ordinanza sul materiale bellico.
L’autorizzazione non potrà essere concessa se il paese di destinazione è coinvolto in un conflitto armato, se viola sistematicamente e gravemente i diritti umani, se figura fra quelli meno avanzati sulla lista dei beneficiari dell’aiuto allo sviluppo, se ci sono forti rischi che le armi siano utilizzate contro civili o che siano trasferite a “un destinatario finale non auspicato”.
Queste disposizioni hanno però sollevato perplessità già durante la conferenza stampa. Incalzata dai giornalisti che volevano sapere se fossero possibili esportazioni verso Stati Uniti e Israele, la ministra dell’economia ha replicato che si stavano facendo “scenari puramente ipotetici, poiché in Svizzera non è pervenuta alcuna richiesta da quei paesi”.
Inoltre non è la Confederazione che definisce lo stato di guerra o la violazione dei diritti umani: queste nozioni sono stabilite da accordi internazionali e sono approvate dall’Onu, ha puntualizzato la Leuthard. Secondo tali regole, per esempio, gli Stati Uniti non sono considerati in guerra contro l’Iraq.
La consigliera federale ha ammesso che, di fatto, l’introduzione di questi cinque criteri non cambia nulla nella prassi elvetica. Dall’analisi retroattiva delle esportazioni non è emerso alcun caso che rientrasse sotto uno di essi.
swissinfo, Sonia Fenazzi
Il Gruppo per una Svizzera senza esercito (GSsE) è deluso e accusa il governo di gettare polvere negli occhi parlando dei criteri di autorizzazione. Le esportazioni continueranno a essere autorizzate negli stati in guerra o che violano i diritti umani, sostiene il movimento pacifista. Inoltre – prosegue il gruppo – l’argomento dei posti di lavoro a rischio nell’industria dell’armamento svizzera non tiene conto della riconversione delle attività nel settore civile.
La soddisfazione è unanime invece sul fronte economico: economiesuisse e l’Unione svizzera delle arti e mestieri sottolineano che le normative attuali sono già sufficientemente severe. Un divieto completo nuocerebbe alla capacità d’innovazione in Svizzera. D’altro canto ricordano che un’iniziativa simile era già stata bocciata nel 1997.
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