Il segreto bancario di fronte a un altro anno difficile
Nelle prossime settimane la Svizzera inizierà a negoziare con Germania e Austria per risolvere il contenzioso fiscale. Le trattative potrebbero però diventare una via crucis, in particolare per l'opposizione di Roma, che chiede una linea comune europea.
Negli ultimi due mesi, sul fronte fiscale e del segreto bancario vi sono stati due importanti sviluppi.
A fine ottobre, l’ex ministro delle finanze Hans-Rudolf Merz ha sottoscritto coi suoi omologhi britannico e tedesco una dichiarazione che permette di avviare negoziati sull’estensione della cooperazione transfrontaliera in ambito fiscale.
I negoziati dovrebbero in particolare sfociare nell’introduzione di un’imposta alla fonte sui redditi dei capitali depositati in Svizzera dai cittadini dei due paesi (modello Rubik, vedi di fianco), imposta che verrebbe poi retrocessa alle autorità fiscali di Londra e Berlino. Inoltre, per cercare di ridurre al minimo i casi di evasione fiscale, si prevede di ampliare l’assistenza amministrativa.
Tentando di raggiungere accordi con due importanti paesi dell’Unione Europea, Berna cerca così di alleviare la pressione per uno scambio automatico di informazioni, al quale si è sempre opposta. La speranza implicita è che poi questo sistema possa essere applicato anche ad altri paesi.
Uno scambio automatico di informazioni verso il quale si dirige invece l’Unione Europea. Nella prima settimana di dicembre i ministri delle finanze dell’UE hanno infatti adottato il progetto di direttiva sulla «cooperazione amministrativa in materia fiscale». Il testo prevede che gli Stati membri non possano più trincerarsi dietro al segreto bancario per non fornire i dati richiesti su presunti evasori fiscali.
La Svizzera ha reagito con una certa soddisfazione, poiché il progetto prevede che lo scambio automatico di informazioni avverrà solo a partire dal 2015 e soprattutto non riguarderà né i redditi del risparmio né le relazioni bancarie. Ad essere toccati saranno dapprima cinque categorie di reddito: salari, pensioni, prodotti assicurativi sulla vita, proprietà immobiliari e indennità di direzione. Poi, dal 2017, potrebbe venire esteso ad altre tre categorie: dividendi, guadagni di capitale e royalties.
La bozza di direttiva contempla altri due punti importanti: le cosiddette «fishing expeditions» (ovvero le ricerche generalizzate di informazioni su contribuenti senza disporre di indizi) saranno proibite e le procedure non saranno retroattive (la richiesta di informazioni non potrà avvenire su periodi antecedenti il primo gennaio 2011).
La grossa ipoteca dell’Italia
Un relativo ottimismo che Marco Bernasconi non condivide, in particolare per la posizione espressa da Roma. «Bisogna leggere la decisione dei ministri delle finanze tenendo conto di quanto dichiarato da Giulio Tremonti», sottolinea l’esperto di fiscalità e professore all’Università della Svizzera italiana a alla Bocconi di Milano.
Il ministro dell’economia e delle finanze italiano ha infatti affermato di credere che « con questa intesa i tentativi di fare trattati bilaterali con paesi extra-UE saranno stoppati». In precedenza, Tremonti aveva denunciato il fatto che «molti paesi continuino a stipulare trattati bilaterali con la Svizzera contro lo spirito della direttiva europea» sulla tassazione dei redditi.
I negoziati con la Germania e la Gran Bretagna, grazie ai quali la Svizzera spera di trovare un’alternativa alla via tracciata a Bruxelles, si annunciano quindi tutti in salita.
«Da un punto di vista giuridico ci si può sicuramente chiedere se sia ammissibile che l’Unione Europea vieti a uno dei suoi membri di scendere a patti con uno Stato extraeuropeo», osserva Marco Bernasconi. «In questo caso, però, ciò che conta non è l’aspetto giuridico, ma quello sostanziale. Se Tremonti ha aderito al progetto di direttiva dell’Ecofin solo a condizioni che vengano bloccati i negoziati bilaterali con la Svizzera, nascono grossi problemi. Non è detto che l’Italia potrà bloccare all’infinito questi accordi, ma è comunque certo che riuscirà a farli trascinare per anni e anni».
Linea dell’Italia e non di Tremonti
Da più parti è stato spesso sottolineato che il problema è costituito dalla persona Tremonti e che con un altro ministro delle finanze – e magari un altro governo – tutto cambierebbe. Secondo Marco Bernasconi, si confondono però un po’ i sogni con la realtà.
«La linea difesa da Tremonti è quella dell’Italia, non la sua personale. Il ministro delle finanze non fa altro che continuare la politica dei governi precedenti», osserva Bernasconi, ricordando che misure contro la Svizzera (liste nere) furono già adottate da altri ministri dell’economia e delle finanze, nel 1992 dal socialista Rino Formica e nel 2000 dal democratico di sinistra Vincenzo Visco.
La carta dell’accordo sui frontalieri
Alla Svizzera rimane però comunque una carta in mano per cercare di ammorbidire la posizione italiana e quindi di riflesso quella europea, ossia l’accordo sui frontalieri.
Grazie a questo accordo, entrato in vigore retroattivamente nel 1974, l’Italia ha ottenuto che il 38,8% dell’imposta alla fonte prelevata sui salari dei frontalieri dai cantoni Ticino, Grigioni e Vallese le fosse riversata. La somma – circa 50 milioni di franchi all’anno – finisce nelle casse dei comuni di frontiera del Nord Italia, che possono così contare su entrate regolari.
«La possibilità è di denunciare questo accordo o per lo meno di chiedere di rinegoziarlo sulla base di quello con l’Austria, che prevede un ristorno del 12,5%», sottolinea Marco Bernasconi. «Se l’accordo dovesse saltare, i comuni di frontiera potrebbero sì tassare chi lavora in Svizzera, ma i soldi finirebbero poi nelle casse dello Stato».
Ripresa economica
Neanche un’eventuale ripresa economica – con un conseguente aumento delle entrate fiscali – farà verosimilmente diminuire la pressione sulla Confederazione. Il fatto che gli Stati abbiano dovuto indebitarsi per salvare il settore finanziario è stato solo uno dei tanti «motivi scatenanti» dell’offensiva contro il segreto bancario, offensiva che del resto era già in atto in parte prima dello scoppio della crisi, osserva Bernasconi.
«Il segreto bancario come lo abbiamo conosciuto negli ultimi 50 anni è superato – conclude Bernasconi. Non è una catastrofe. La Svizzera ha una tradizione bancaria importante e si abituerà senza dubbio a lavorare coi soldi ‘bianchi’».
Dal 2005 la Svizzera applica un’imposta alla fonte sugli interessi maturati sui capitali depositati da cittadini dell’Unione Europea su conti di banche elvetiche. La cosiddetta euroritenuta, regolata dall’accordo sulla fiscalità del risparmio con l’UE, è attualmente del 20% e dal primo luglio 2011 passerà al 35%.
Nel 2009 la Confederazione ha prelevato 534,8 milioni di franchi; il 75% è stato riversato agli Stati dell’UE. I tre principali paesi beneficiari sono stati nell’ordine l’Italia (122 milioni di franchi), la Germania (109) e la Francia (52).
Questa imposta, che preserva l’anonimato dei clienti, è stata oggetto di numerose critiche. In particolare è possibile evitarla ‘de-europeizzando’ i capitali in deposito, ad esempio trasferendoli in strutture societarie extra-europee.
Per colmare le lacune della Direttiva sulla fiscalità del risparmio e porre fine alle pressioni di alcuni paesi dell’UE, l’Associazione svizzera dei banchieri ha proposto di introdurre una nuova imposta alla fonte.
Il cosiddetto ‘modello Rubik’, elaborato dal presidente della Banca della Svizzera Italiana Alfredo Gysi, prevede di prelevare un’imposta su tutti i redditi dei capitali mobili (dividendi, canoni di licenza…) e non solo sugli interessi. Inoltre, il prelevamento viene esteso anche alle persone giuridiche. Il tasso sarebbe uguale a quello stabilito negli Stati di residenza di coloro che hanno collocato capitali in Svizzera.
Grazie a questo modello, attualmente oggetto di negoziati con Londra e Berlino, la Svizzera preserverebbe il segreto bancario, evitando di dover introdurre lo scambio automatico di informazioni.
Un altro dossier ‘caldo’ nelle relazioni tra Svizzera e Unione Europea è quello della fiscalità delle imprese.
Da anni Bruxelles critica i regimi speciali d’imposizione accordati da alcuni cantoni svizzeri alle holding, alle società di gestione e alle società miste.
In un rapporto sulle relazioni con la Svizzera pubblicato a metà dicembre, l’UE è tornata alla carica denunciando questi regimi fiscali, equiparati ad aiuti statali che falsano la concorrenza, contravvenendo agli accordi di libero scambio.
Il governo svizzero ritiene infondate le critiche. Tuttavia Berna ha elaborato delle riforme, per cercare di instaurare una parità di trattamento fiscale tra i redditi svizzeri ed esteri di tutte le società.
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