L’industria bellica svizzera starebbe in piedi senza l’export di armi?
La consigliera nazionale dei Verdi, Marionna Schlatter, chiede lo stop totale delle esportazioni, a tutela della pace. L’analisi di Mauro Gilli, esperto di sicurezza e di strategia militare al Politecnico federale di Zurigo.
Un’iniziativa parlamentareCollegamento esterno mira allo stop totale delle esportazioni di armi e di materiale bellico. L’autrice è la consigliera nazionale dei Verdi, Marionna Schlatter, a tutela – dice – di una politica di promozione della pace che sia lineare e coerente.
La proposta difficilmente sarà in grado di raccogliere consensi al di là del campo della sinistra ma intanto il dibattito è lanciato e costringerà la politica a confrontarsi con la richiesta.
Armi svizzere all’estero: sì o no? La questione ha causato e sta causando non pochi grattacapi alla politica dallo scoppio della guerra in Ucraina. Da allora, dal febbraio 2022, è piuttosto la riesportazione di materiale bellico prodotto nella Confederazione a far discutere. Ma che ne è dell’esportazione tout court, quindi dalla Svizzera direttamente a un altro Stato? Ebbene, fa oramai discutere anche questa. Il dibattito è stato lanciato da Marionna Schlatter, consigliera nazionale dei Verdi che nella sua iniziativa parlamentare, appunto, chiede uno stop totale dell’export di armi. Si va dunque ben oltre l’attuale divieto – perché oggi così stanno le cose – di trasferire materiale bellico svizzero in Paesi in conflitto.
La zurighese sottolinea come la Confederazione investa molto in una politica estera che si concentra sulla promozione della pace e sulla tutela dei diritti umani. Approfittando però al contempo della corsa al riarmo, a cui un’industria degli armamenti elvetica orientata all’esportazione guarda con estremo interesse. Gli effetti economici di un tale divieto sarebbero – secondo la deputata – gestibili, trattandosi – scrive – di poche migliaia di posti di lavoro in settori inoltre caratterizzati da un’importante carenza di manodopera.
La proposta – che prevede alcune eccezioni, per esempio per lo sminamento umanitario – è già fortemente combattuta a pochi giorni dal suo deposito. Sulla stampa solo il consigliere nazionale socialista Fabian Molina la sostiene. Il collega Patrick Hässig, dei Verdi liberali, rileva invece l’importanza per l’esercito svizzero di una nostra industria degli armamenti solida e funzionante. Sulla stessa linea Thomas Hurter, dell’Unione democratica di centro, che evoca anche il rischio di una possibile fuga all’estero delle aziende coinvolte. Secondo Schlatter, invece, una parte dell’industria degli armamenti continuerebbe a essere disponibile per approvvigionamento e manutenzione degli strumenti dell’esercito.
Ma l’industria bellica svizzera riuscirebbe a stare in piedi anche senza l’export di armi? La RSI lo ha chiesto a Mauro Gilli, esperto di sicurezza e di strategia militare al Politecnico federale di Zurigo.
Mauro Gilli: Direi che dipende molto da azienda ad azienda. Cioè ci sono delle aziende che come mercato hanno principalmente quello svizzero, per queste chiaramente la questione non si pone. In generale, però, possiamo dire per tutti i Paesi occidentali, le esportazioni giocano un ruolo centrale, per la semplice ragione che si discute ormai da più di due anni a questa parte, del fatto che i Paesi occidentali spendono molto poco in difesa.
Senza le esportazioni è molto difficile riuscire a raggiungere una quantità di unità prodotte tale per cui il costo unitario di un determinato sistema sia non voglio dire competitivo ma accettabile, perché uno può sempre produrre solo per il mercato interno ma poi il prezzo è assurdo.
Ma al di là del fattore economico e produttivo, c’è un aspetto anche strategico nelle esportazioni di armi, tenendo conto ovviamente della neutralità della Svizzera?
M.G.: In generale sì, nel senso che l’industria della difesa è un’industria molto particolare perché non segue le dinamiche delle aziende commerciali. Per spiegare molto semplicemente, quando un Paese come la Corea del Sud, per esempio, acquista dei sistemi di difesa antiaerea americani, non compra solo dei sistemi estremamente avanzati ed efficaci, ma compra in parte anche il supporto americano. Quindi va a comprare “politicamente” l’impegno americano a intervenire in caso di conflitti nella penisola coreana.
Per la Svizzera, chiaramente le cose sono diverse, perché è un paese neutrale. Quindi la Svizzera da questo punto di vista, con la sua industria della difesa non persegue una strategia. Ha un’industria bellica in alcuni settori (pensiamo a Rheinmetall) molto, molto avanzata. Questa azienda si trova in Svizzera e sviluppa prodotti molto efficaci e molto efficienti che altri Paesi vogliono.
Ha detto prodotti molto efficienti che altri Paesi vogliono. Prima ha spiegato che una delle caratteristiche che differenzia l’industria della difesa da quella commerciale è che determinati tipi di prodotti hanno un numero di produttori molto limitato. Ecco, vale anche per la Svizzera. C’è chi ne risentirebbe, almeno nel breve termine, se la Svizzera vietasse l’esportazione?
M.G.: Ci sono probabilmente determinati componenti per i quali, riuscire a sopperire a quella produzione, richiederebbe comunque del tempo per i problemi di cui si parla da almeno due anni a questa parte, ovvero che aumentare di punto in bianco la produzione di determinati tipi di componenti, parti, sottosistemi o sistemi militari richiede centri produttivi, centri di sviluppo.
Per alcuni il problema si potrebbe porre, per altri, ad esempio Rheinmetall (che comunque ha la produzione in Germania, adesso ha addirittura iniziato a lavorare per sviluppare un centro di produzione in Ucraina), chiaramente col tempo il problema verrebbe meno.
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