Perché la Palestina vuole aderire all’ONU
Di fronte all'impasse nei negoziati con Israele, i palestinesi brandiscono una domanda di adesione all'ONU, sinonimo di riconoscimento del loro Stato. L'ex diplomatico Yves Besson analizza le probabilità di successo dell'offensiva diplomatica.
“Ci rivolgiamo al Consiglio di sicurezza, presentando la richiesta al segretario generale delle Nazioni Unite, per ottenere l’ammissione a pieno titolo all’ONU e il riconoscimento della Palestina nei confini del 1967”, ha ribadito mercoledì il presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), in un intervento al Consiglio centrale dell’OLP (Organizzazione di liberazione della Palestina) a Ramallah, in Cisgiordania.
“Dobbiamo andare alle Nazioni Unite senza commettere il benché minimo errore. Non vogliamo uno scontro con gli Stati Uniti. L’ONU non è un’alternativa ai negoziati di pace con Israele”, ha quindi precisato.
Mahmud Abbas ha così indirettamente risposto alle affermazioni dell’ambasciatrice aggiunta degli Stati Uniti all’ONU, Rosemary DiCarlo, la quale il giorno precedente aveva sottolineato che Washington “non appoggerà una campagna unilaterale” (palestinese). Il governo americano “è sempre stato chiaro: l’unico posto in cui possono essere risolte le questioni legate allo statuto permanente (della Palestina), comprese quelle dei confini e del territorio, sono i negoziati tra le parti, non una piazza internazionale come le Nazioni Unite”.
Tattiche negoziali
L’offensiva diplomatica palestinese, secondo gli auspici del presidente Abbas, dovrebbe essere accompagnata da manifestazioni nei Territori palestinesi. “Vogliamo un’azione massiccia, organizzata e coordinata in ogni luogo. È l’occasione di far sentire la voce a tutti e di rivendicare i nostri diritti”, ha detto il presidente palestinese.
Un’iniziativa che irrita Israele, poiché lo Stato ebraico teme che manifestazioni di massa palestinesi si possano trasformare in un movimento contestatario sulla scia della “primavera araba”. Israele critica anche la candidatura della Palestina all’ONU.
“Le azioni unilaterali non porteranno la pace nella regione”, ha affermato al Consiglio di sicurezza l’ambasciatore israeliano all’ONU Ron Prosor, secondo il quale, certamente “l’iniziativa palestinese può sembrare attrattiva a taluni. In realtà, distoglie l’attenzione dalla vera via verso la pace”, ossia dai negoziati.
Secondo Mahmud Abbas, invece, i palestinesi si rivolgono “alle Nazioni Unite perché costretti. E non è un’azione unilaterale .Ciò che è unilaterale è la colonizzazione israeliana”, ha dichiarato il presidente palestinese la scorsa settimana a una riunione a Istanbul.
Ex direttore dell’UNWRA (Agenzia dell’ONU per l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente ed ex ambasciatore svizzero, Yves Besson riassume così la strategia palestinese: “finché non avrà un’offerta che non corrisponde ai suoi desideri, l’Autorità palestinese farà di tutto per dimostrare che lo stallo è dovuto agli israeliani”.
Secondo il ricercatore, i palestinesi sono sempre disposti a negoziare. E ciò sulla base dei parametri formulati in maggio dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama. “Siamo sempre nello schema della road map definita dopo gli accordi di Oslo, delle proposte di Bill Clinton, allora presidente, riprese dall’Iniziativa di Ginevra, patrocinata dalla diplomazia svizzera. Un quadro sempre sostenuto da Berna, che non si è ancora pronunciata sulla candidatura della Palestina all’ONU”.
“Non è ancora chiaro se la risoluzione su questa domanda di adesione sarà depositata o meno. Al momento opportuno, il governo federale esaminerà la questione”, ha precisato a swissinfo.ch il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE).
L’ambasciatore palestinese all’ONU a Ginevra, Ibrahim Khreisheh, ha dichiarato a swissinfo.ch di ritenere “legittimo” che Berna voglia conoscere il testo prima di pronunciarsi. Il diplomatico palestinese si è detto fiducioso: “credo che la posizione della Svizzera sarà positiva quando avrà preso conoscenza del contenuto della bozza di risoluzione che prepara la direzione palestinese per l’ONU”. La bozza sarà oggetto di una riunione palestinese con esperti della Lega araba, il 4 agosto prossimo a Doha.
Ibrahim Khreisheh ha spiegato che i palestinesi hanno avviato “consultazioni con i paesi che ci riconoscono o che non ci riconoscono come Stato ma soltanto come rappresentanti del popolo palestinese”. Tra questi, c’è appunto la Svizzera. L’ambasciatore palestinese ha precisato di avere già incontrato un alto funzionario del DFAE per discutere la questione.
L’impatto della “primavera araba”
Per spiegare l’offensiva diplomatica palestinese, Yves Besson ricorda il contesto molto volatile del Medio Oriente. “Le insurrezioni popolari nel mondo arabo hanno cambiato la situazione palestinese. L’Autorità palestinese e l’OLP sono sotto pressione. Infatti, da quando Salam Fayyad è il primo ministro di Mahmud Abbas, l’Autorità palestinese ha l’appoggio della Banca mondiale e dell’amministrazione statunitense per creare un embrione di Stato. Salam Fayyad disponeva dell’aiuto di un alto graduato americano per organizzare una polizia e una sicurezza interna che possa soddisfare Israele. Ciò che ha fatto. Ma oggi molti palestinesi accusano questa polizia di fare il lavoro sporco dell’occupante israeliano”.
E non è tutto. “Con il rovesciamento dell’egiziano Hosni Moubarak, l’Autorità palestinese (così come Israele) ha perso un solido sostegno per contenere Hamas. Ma anche gli islamici che hanno in mano la Striscia di Gaza sono in posizione debole dall’inizio delle manifestazioni contro il loro mentore, il regime di Damasco. Hamas sarebbe persino infuriato contro Damasco in seguito alle recenti incursioni siriane nel Golan. Non è dunque sorprendente che Hamas e Fatah si siano riconciliati dopo la caduta di Moubarak e dopo i sollevamenti in Siria. Diminuendo l’influsso di Damasco e del Cairo, si allarga il campo delle possibilità sia per Hamas, sia per Fatah, il partito di Mahmud Abbas”.
Secondo Yves Besson, è prematuro dire se la tattica diplomatica dei palestinesi consentirà di rilanciare i negoziai fra israeliani e palestinesi. “Ma i palestinesi sanno che il tempo e la demografia giocano in loro favore, con o senza Stato”.
In seguito alla guerra di Gaza, la risoluzione 1860 (8 gennaio 2009) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite chiede un cessate il fuoco immediato, duraturo e rispettato pienamente, che porti al ritiro completo dalla Striscia delle forze israeliane e all’accesso degli aiuti umanitari.
Poco prima della guerra di Gaza, la risoluzione 1850 (16 dicembre 2008) dichiara l’attaccamento del Consiglio di sicurezza all’irreversibilità dei negoziati bilaterali e il suo sostegno al processo di pace di Annapolis.
In seguito alla guerra del Kippur, la risoluzione 338 (22 ottobre 1973) chiede un cessate il fuoco e la piena applicazione della risoluzione 242.
Quest’ultima (22 novembre 1967), adottata in seguito alla guerra dei Sei giorni, chiede a tutte le parti in conflitto di mettere fine alle rivendicazioni territoriali e di rispettare la sovranità e domanda a Israele di ritirarsi dai territori occupati.
Due fazioni si contendono il controllo dei Territori Palestinesi: Fatah e Hamas.
Fatah è il movimento laico fondato nel 1959 da Yasser Arafat. Fino al 2006 è stata la maggior organizzazione palestinese. Il partito, che controlla la Cisgiordania, è guidato da Mahmoud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Per Israele si tratta dell’unico interlocutore affidabile del processo di pace.
Hamas è il movimento d’ispirazione islamica creato nel 1987 dallo sceicco Ahmed Yassin. Elencato tra le organizzazioni terroristiche da diversi governi occidentali, si rifiuta tra l’altro di riconoscere lo Stato di Israele. Alle ultime elezioni (2006), ritenute regolari dagli osservatori, ha conquistato la maggioranza dei seggi in seno all’ANP. Ha in seguito preso il controllo della Striscia di Gaza.
Le tensioni tra Hamas e Fatah emerse dopo la morte di Arafat si sono intensificate dopo la vittoria elettorale del partito islamista.
Oltre a contendersi il potere, i due partiti divergono sulle precondizioni dell’apertura del dialogo con Israele.
Negli ultimi cinque anni si è assistito a una vera e propria guerra civile, soprattutto nella Striscia di Gaza. Nonostante i diversi cessate il fuoco e il tentativo negoziale del 2009, il conflitto ha lasciato sul terreno centinaia di morti.
(Traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)
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