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Prova del nove per le esportazioni di materiale bellico

Keystone

Le esportazioni di armi sono nuovamente sul banco degli imputati in Svizzera: l'elettorato dovrà pronunciarsi il 29 novembre sulla proposta di bandirle. I sostenitori dell'iniziativa sono animati da motivi etici e pacifisti, gli avversari da ragioni economiche e strategiche.

Quello che i promotori dell’iniziativa chiamano “il commercio della morte” da anni desta polemiche in Svizzera. Ma in passato i tentativi di abolirlo sono sempre falliti. Nel 1972, l’iniziativa popolare “per un controllo rinforzato dell’industria d’armamento ed il divieto d’esportazioni d’armi” è stata respinta da 15 cantoni e dal 50,3% dei votanti. Senza appello la bocciatura, nel 1997, dell’iniziativa “per un divieto di esportazione di materiale bellico”, rifiutata in tutti cantoni e con il 77,5% dei voti.

Se le misure radicali non hanno superato lo scoglio delle urne, la controversia ha però portato a revisioni legislative che hanno introdotto disposizioni più severe in materia. Ciò ha placato gli animi per un certo periodo.

Nel 2005, la pubblicazione delle statistiche sulle esportazioni di materiale bellico ha riacceso il dibattito. Il Gruppo per una Svizzera senza esercito (GSsE) è insorto di fronte alla fortissima progressione di tali forniture e ha denunciato il fatto che fra i principali destinatari vi fossero paesi in situazioni di crisi o di conflitto, quali l’Iraq, il Pakistan e l’India.

Insieme a oltre trenta fra partiti e organizzazioni di sinistra, di ispirazione cristiana e pacifisti, il GSsE ha formato una coalizione che nel giugno 2006 ha lanciato l’iniziativa popolare “per il divieto di esportare materiale bellico”, che è stata depositata nel settembre 2007 con quasi 110mila firme valide.

Riconversione civile con l’aiuto della Confederazione

Il testo, innanzittutto, prevede che la Confederazione sostenga e promuova gli sforzi internazionali nel campo del disarmo e del controllo degli armamenti.

Quindi sancisce il divieto di esportazione e di transito attraverso la Svizzera di materiale bellico, comprese le tecnologie che possono servire alla produzione di armamenti. Non sono invece sottoposti alla proibizione gli strumenti di sminamento umanitario, come pure le armi per lo sport e la caccia.

D’altra parte il testo stabilisce l’obbligo per la Confederazione di sostenere per dieci anni le regioni e i dipendenti colpiti dalle conseguenze del bando. Non fissa però le modalità.

Fattura giudicata troppo salata

Le proposte della Coalizione contro le esportazioni di materiale bellico non hanno trovato grazia presso il governo che, nell’agosto 2008, ha respinto l’iniziativa. Nel messaggio al parlamento, l’esecutivo federale ha motivato il rifiuto con tre argomenti principali: l’industria d’armamento svizzera sarebbe messa in pericolo, un enorme know-how andrebbe perso, i costi per la Confederazione sarebbero esorbitanti.

Questi argomenti sono stati ripresi dai rappresentanti dei partiti di centro e di destra nei dibattiti alle Camere federali. Secondo gli oppositori dell’iniziativa, buona parte delle industrie svizzere di armamenti non potrebbe sopravvivere senza esportazioni. Ciò causerebbe la soppressione di migliaia di posti di lavoro. Inoltre comprometterebbe la sicurezza nazionale: la produzione indigena non consentirebbe più di garantire l’approvvigionamento di beni d’equipaggiamento in caso di crisi, hanno argomentato.

I rappresentanti della sinistra e del Gruppo parlamentare composto di ecologisti, evangelici e cristiano sociali hanno replicato invano che le forniture di materiale bellico a paesi in situazione di crisi sono contrarie alla neutralità elvetica e alla politica di promozione dei diritti umani e della pace della Confederazione. D’altro canto, secondo i sostenitori dell’iniziativa, una riconversione civile dei posti di lavoro persi dall’industria bellica offrirebbe migliori prospettive alla Svizzera.

Per i rosso-verdi, casi come quello dell’anno scorso del Ciad, dove un aereo d’addestramento fornito dalla Svizzera è stato trasformato in aereo da combattimento dal quale sono state sganciate bombe sulla popolazione del Darfur, dimostrano che l’attuale normativa non è efficace. Ma la destra ha obiettato che le restrizioni vigenti sono sufficienti e che i paesi destinatari che commettono abusi possono essere sanzionati.

Così, nel voto alle Camere l’iniziativa non ha trovato scampo. Il Consiglio nazionale l’ha respinta con 131 suffragi contro 63, il Consiglio degli Stati con 35 contro 7 e 3 astensioni.

Sonia Fenazzi, swissinfo.ch

Secondo le statistiche della Segreteria di Stato dell’economia (SECO), l’anno scorso la Svizzera ha esportato materiale bellico in 72 paesi per un totale di quasi 722 milioni di franchi. Con un’impennata rispetto ai 464,5 milioni del 2007, queste esportazioni hanno segnato un nuovo primato. Il record precedente risaliva al 1987, con 578,3 milioni.

Nei primi 9 mesi del 2009 è stato registrato un nuovo incremento di 9 milioni di franchi rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Dall’inizio di gennaio alla fine di settembre, le esportazioni hanno totalizzato 499 milioni.

I principali destinatari nel 2008 sono stati Pakistan (110 milioni), Danimarca (83 milioni), Germania (81 milioni) e Belgio (79 milioni.

Le esportazioni di materiale bellico nel 2008 costituivano lo 0,33% del volume complessivo dell’export svizzero.

Il Gruppo per una Svizzera senza esercito (GSsE) è un movimento creato nel 1982 a Soletta da un centinaio di militanti pacifisti che lanciano un’iniziativa popolare per abolire le forze armate nella Confederazione.

Inizialmente è preso sotto gamba. Ma l’iniziativa riesce. Pur non superando lo scoglio delle urne, con il 35,6% di voti a favore, il 26 novembre 1989, la proposta ottiene un numero di consensi superiore alle previsioni. In due cantoni – Ginevra e Giura – è persino approvata. Il tabù dell’esercito “vacca sacra” della Svizzera è ormai rotto.

Passata la votazione, il GSsE prosegue la sua attività politica in favore di una Svizzera promotrice della pace. Da allora ha già lanciato e portato in votazione altre quattro iniziative: Contro gli aerei da combattimento (1992, 42,8% sì, 57,2% no), Armi all’estero (2001, 21,9% sì, 78,1% no), Per una Svizzera senza esercito II (2001, 21,9% sì, 71,9% no) e Servizio civile per la pace (2001, 23,2% sì, 76,8% no).

Quella “Per il divieto di esportare materiale bellico” su cui il popolo elvetico voterà il 29 novembre 2009 è la quinta.

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