Svizzeri senza diritti
Gli aborigeni australiani hanno recentemente ricevuto le scuse del governo di Canberra per le discriminazioni del passato. Una vicenda che ricorda quella degli Jenisch, il popolo nomade della Svizzera.
Originari soprattutto dall’Europa dell’Est, gli Jenisch sono stati riconosciuti quale minoranza nazionale dopo il periodo buio del secolo scorso. Il passaporto elvetico non garantisce però loro pieni diritti.
La comunità aborigena ha dovuto attendere il momento per oltre 50 anni. Il 13 febbraio, il premier australiano si è presentato in parlamento scusandosi per «le leggi e le politiche dei passati governi, che hanno inflitto profondo dolore e sofferenze» alla popolazione indigena.
Kevin Rudd ha chiesto scusa alle famiglie coinvolte nella vicenda della generazione rubata (“Stolen generation”), in riferimento alle decine di migliaia di bambini di sangue misto che sono stati sottratti ai genitori per essere cresciuti in istituti statali o affidati a famiglie bianche.
Una pagina triste della storia australiana, quella della prima metà del XX secolo, che ricorda – con le dovute proporzioni – la vicenda degli zingari in Svizzera. Anche loro discriminati in quanto minoranza. Anche loro vittime di un “furto generazionale”. E anche loro riabilitati dalle scuse delle autorità.
Sradicare il nomadismo
Le vicissitudini dei nomadi della Svizzera (soprattutto Jenisch, ma anche Sinti e Rom) hanno inizio già nell’Ottocento. Considerati un problema sociale e di polizia, sono oggetto di persecuzioni ed espulsioni.
Il loro girovagare senza meta non piace alle autorità, che attorno al 1850 decidono di naturalizzarli assieme ai cosiddetti senza patria nei cantoni dove soggiornano: un lavoro regolare e un domicilio fisso dovrebbero rappresentare la soluzione al problema del vagabondaggio.
Non sarà così e qualche decennio più tardi la Confederazione è tra i primi stati a introdurre limitazioni della libertà di spostamento degli zingari a livello legislativo. Decisa a combattere ogni forma di marginalità, non rinuncia nemmeno a ricorrere a misure coercitive per sottomettere i cittadini che non riflettono gli ideali di ordine dell’epoca.
Offre così il suo sostegno all’opera di assistenza “Bambini della strada”. Un programma nato sotto buoni auspici (integrare i piccoli girovaghi in famiglie svizzere “normali” e garantire un’adeguata scolarizzazione), i cui sviluppi saranno tuttavia disastrosi.
Bambini rubati
A partire dal 1926, l’opera istituita dalla fondazione Pro Juventute inizia a togliere sistematicamente i figli Jenisch ai loro genitori, cancellando perlopiù ogni traccia della loro identità e origine.
«L’intenzione originaria di sistemare i bambini in famiglie d’accoglienza non è stata realizzata», rileva uno speciale studio sui nomadi svizzeri del Fondo nazionale (PNR 51) pubblicato nel 2007. «Solo poco più del 50% è stato affidato ad una famiglia».
Molti bambini si ritrovano in cliniche psichiatriche o in prigione, dove nel nome della lotta al nomadismo subiscono maltrattamenti e abusi. Lo scandalo viene alla luce nel 1973 grazie ad un settimanale svizzero tedesco (Der schweizerische Beobachter): Pro Juventute è costretta a sospendere l’opera.
Ci vorranno 15 anni prima che le autorità federali facciano il mea culpa. Nel 1987, attraverso le parole dell’allora presidente Alphons Egli, la Confederazione porge le sue scuse riconoscendo la propria responsabilità morale e politica.
Aprire gli archivi
Gli autori del programma di ricerca PNR 51 “Integrazione ed esclusione” confermano che i casi accertati di bambini sottratti ai genitori sono 586. I cantoni più interessati sono i Grigioni, il Ticino, San Gallo e Svitto.
I dati non sono tuttavia completi e le stime parlano di circa 2’000 bambini. Oltre a Pro Juventute (che ha aperto i suoi archivi), furono infatti attivi anche altri enti assistenziali, come l’associazione cattolica Seraphisches Liebeswerk, la quale ha negato ai ricercatori l’acceso agli incartamenti.
Invano finora l’appello dell’ex consigliera federale Ruth Dreifuss, che ha invitato il Parlamento a «prendere la stessa decisione adottata per far luce sui conti bancari degli ebrei durante la Seconda guerre mondiale, ovvero imporre la salvaguardia e l’apertura dei documenti rilevanti per gli Jenisch».
Stessi doveri, diversi diritti
Nell’attesa di una totale chiarezza, i circa 35mila Jenisch della Svizzera continuano a lottare per il proprio diritto di esistere in quanto minoranza nazionale.
«Il maggior problema è rappresentato dalle aree di soggiorno e di transito», dice a swissinfo Daniel Huber, vicepresidente dell’Organizzazione mantello degli Jenisch in Svizzera. «Bisognerebbe metterne a disposizione di più, ad esempio in cantoni di frontiera come il Ticino e Basilea, attrezzandole con le infrastrutture adeguate».
Paradossalmente, nell’era della globalizzazione e della libera circolazione delle persone, la vita da nomade si è fatta più complicata. «Sulle strade c’è sempre più gente e le zone di sosta continuano a diminuire», osserva Huber.
Con la riforma Esercito XXI, il Dipartimento della difesa metterà in vendita diversi terreni. Spazi che secondo Huber potrebbero venir trasformati per accogliere i girovaghi.
Fino ad allora, gli Jenisch continueranno a coltivare un certo senso di frustrazione. «Siamo qui fin dalla nascita della Confederazione nel 1291, siamo naturalizzati e paghiamo le imposte . Ma se non abbiamo la possibilità di praticare il nomadismo, come facciamo a mantenere viva la nostra cultura?», s’interroga Huber.
«Abbiamo gli stessi doveri di tutti gli svizzeri, ma non i medesimi diritti», conclude.
swissinfo, Luigi Jorio
In Svizzera ci sono circa 30’000-35’000 persone di origine Jenisch (in particolare a Svitto e nei Grigioni).
Il numero di nomadi o seminomadi si aggira tra i 3’000 e i 5’000.
Nell’Europa occidentale (soprattutto Austria, Germania e Francia) gli Jenisch sono circa 100’000.
Molti sono giunti in Svizzera dopo la Seconda guerra mondiale come profughi dall’Europa dell’Est, dalla Russia e dalla Polonia, altri dall’Italia e dall’ex Jugoslavia.
Coloro che praticano ancora il nomadismo in Svizzera trascorrono i mesi invernali in aree di soggiorno nelle roulotte, in abitazioni di legno oppure nei container.
Tutti i membri della popolazione nomade sono registrati presso le autorità locali. I più piccoli frequentano la scuola di quartiere o del villaggio.
I nomadi non curano solo l’esercizio dei loro mestieri tradizionali (arrotino, cestaio, ombrellaio,…), ma offrono vari servizi artigianali e di riparazione.
Durante il periodo estivo si spostano in piccoli gruppi su tutto il territorio elvetico, soggiornando in genere 1-2 settimane negli spazi di transito.
Per le aree di soggiorno pagano fino a 800 franchi al mese, mentre per le zone di transito la tariffa è tra i 3 e i 18 franchi al giorno.
In Svizzera, gli Jenisch sono detti popolarmente anche Kessler (calderai) e Spengler (stagnai), nomi derivati dalla loro professione, oppure Vazer (da Vaz/Obervaz, località grigionese di cui molti Jenisch ottennero la cittadinanza nel XIX secolo).
Alla cultura Jenisch appartiene un idioma particolare, tramandato per via orale, che comprende circa 600 parole base. Nel 1996 il Consiglio federale l’ha dichiarato una lingua svizzera non legata a una determinata regione.
Nel 1997, la Confederazione ha creato la fondazione “Un futuro per i nomadi svizzeri” con lo scopo di salvaguardare e migliorare le condizioni di vita dei nomadi e la tutela della loro identità culturale.
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