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Tunisia e Egitto: emancipazione e rottura non violenta

La rivoluzione tunisina si è estesa a macchia d'olio in diversi altri paesi islamici Keystone

La religione rimessa al suo posto, l'emancipazione delle donne e la non violenza contro i regimi violenti: per l'antropologo svizzero-tunisino Mondher Kilani, questi tre elementi sono le caratteristiche più importanti delle due rivoluzioni che hanno avuto successo finora nei paesi islamici.

Dopo due rivoluzioni popolari in Tunisia e Egitto, la “primavera araba” si scontra con la repressione in molti altri paesi islamici, dalla Libia allo Yemen, fino alla Siria. L’esempio tunisino ed egiziano ha tuttavia sconvolto molte certezze, tra cui quella di “un’eccezione araba”, in base alla quale nel mondo musulmano non sarebbe attuabile un cambiamento di società.

Un tema, quest’ultimo, evocato durante una recente giornata di studi all’Università di Losanna, a cui ha partecipato il professor Mondher Kilani. Intervista.

swissinfo.ch: Le rivoluzioni in atto in Tunisia e Egitto spingeranno gli intellettuali a rivedere i loro pregiudizi sul mondo arabo e sulla cosiddetta “eccezione araba”?

Mondher Kilani: Sì, certamente. Sta cambiando sia il punto di vista degli arabi su se stessi che quello degli occidentali sui paesi islamici. Si pensava che nulla potesse cambiare in questi paesi e che erano essenzialmente orientati verso dittature, terrorismo, arcaismo. L’eccezione araba, insomma.

Oggi ci rendiamo invece conto che non esiste più un’eccezione araba. Non nel senso che gli arabi sono diventati come gli occidentali, ma nel senso che nessuna società è più immune da sconvolgimenti. Nei paesi islamici vi era una crescente pressione dei giovani verso la libertà e contro la corruzione. Qualcosa doveva quindi cambiare.

Questo fenomeno ha sorpreso e sta ancora sorprendendo molti. Ma, da un profilo storico, le trasformazioni in atto sono il risultato di esigenze che esistevano già da tempo all’interno della società.

swissinfo.ch: I paesi occidentali hanno sostenuto la transizione democratica in Europa orientale e, prima ancora, in Grecia, Portogallo e Spagna. Quale ruolo potranno assumere nel mondo arabo?

M.K.: Difficile dirlo. È vero che l’Europa occidentale e gli Stati Uniti hanno sostenuto i processi democratici in Europa orientale e meridionale. Li hanno anche anticipati, in quanto consideravano l’ex blocco sovietico e i paesi meridionali come una parte dell’Europa.

Ma per il mondo arabo le cose sono diverse. La posizione dell’Occidente è molto ambigua e complessa. Innanzitutto perché vi è stato un passato coloniale o imperiale. E poi per il fatto che i regimi autoritari arabi sono stati quasi tutti sostenuti in un modo o nell’altro dall’Occidente, sia come alleati geostrategici, sia come produttori di petrolio o come barriere per frenare le migrazioni da Sud a Nord.

Tenendo conto di tutto questo, non si può dire che vi era una particolare predisposizione da parte dell’Europa e degli Stati Uniti a sostenere i movimenti democratici nel mondo arabo. Bisognerebbe piuttosto dire che i cambiamenti in corso sono avvenuti nonostante il sostegno accordato fino a poco tempo fa dai paesi europei e dagli Stati uniti ai regimi dittatoriali nei paesi islamici.

Ora, alcuni paesi occidentali stanno cercando di salire su un treno in corsa. Resta però da vedere se il loro sostegno è dovuto al desiderio di giungere ad una reale democratizzazione dei paesi islamici o al fatto che ormai non possono più fare a meno di appoggiare i movimenti democratici.

swissinfo.ch: Per ora, due paesi sono riusciti a rovesciare i loro regimi dittatoriali. A suo parere, si istaurerà un nuovo tipo di contratto sociale in Tunisia e Egitto?

M.K.: È ancora troppo presto per prevederlo. Non sono un indovino, e nessuno lo è. Di certo, in futuro bisognerà tener conto in questi paesi delle rivendicazioni provenienti dalla base, rivendicazioni di dignità, giustizia, democrazia e libertà. E, per fare questo, sono necessari cambiamenti radicali, tra cui una ridefinizione dei diritti dei cittadini, del patto sociale, del buon governo, dei rapporti tra le classi sociali e tra uomo e donna, delle relazioni tra la politica e la religione.

swissinfo.ch: Per quanto riguarda proprio la religione: quale sarà il suo posto in questa nuova configurazione?

M.K.: La questione si porrà in ogni caso. Difficile però sapere se verrà posta in termini ideologici, vale a dire come un riferimento assoluto, destinato ad ispirare i regimi politici. Penso che entrerà piuttosto come riferimento culturale, come riferimento a una tradizione. Perché, se ho ben capito quello che sta accadendo attualmente nel mondo arabo, non si tratta di una rivoluzione simile a quella avvenuta nel 1978-79 in Iran, in cui il riferimento fondamentale era l’Islam.

swissinfo.ch: Per concludere, lei ha affermato che è in corso una “rottura antropologica” nella storia di questi popoli. Cosa intende esattamente?

M.K.: Intravedo almeno tre tipi di cambiamento. Il primo è semplicemente che la religione – anche se è presente e rappresenta ancora un simbolo importante nel mondo arabo – non viene più utilizzata come fonte ideologica per determinare il patto sociale. Tutti i regimi arabi, “laici” o meno, hanno usato la religione per rafforzare il loro potere e la loro legittimità. Hanno preso in qualche modo in ostaggio la religione. Mi sembra che la religione stia prendendo la sua giusta collocazione, emancipata da tentativi di manipolazione.

Un altro punto importante è l’emancipazione delle donne. Durante le manifestazioni, le donne erano presenti nello spazio pubblico, così come sono presenti nella società civile, velate o meno. Ciò mostra, tra l’altro, che l’emancipazione può essere raggiunta per vie diverse da quelle seguite in Occidente. Ritengo che ormai possiamo soltanto muoverci verso un rafforzamento della parità tra uomini e donne.

Ciò che mi sembra altrettanto importante, quando parlo di rottura antropologica, è il rapporto con la violenza. La gente è scesa disarmata a manifestare per le strade. La popolazione ha risposto alla violenza strutturale, dittatoriale, simbolica ed economica, di cui ha sofferto, con un movimento di nonviolenza. Tutto ciò è una prova di civiltà e dimostra la una capacità dei cittadini di farsi carico del proprio destino, per non essere più manipolati. Né da dittatori, né da presunti salvatori e neppure da coloro che spingono verso una fuga in avanti, alla ricerca di soluzioni miracolose.

Nato e cresciuto in Tunisia, Mondher Kilani ha lasciato il suo paese a 19 anni. Il cittadino elvetico-tunisino ha studiato a Losanna e a Parigi, ottenendo un dottorato in antropologia.

Attualmente professore ordinario all’Università di Losanna, Mondher Kilani ha condotto numerosi studi di antropologia sui cambiamenti sociali in atto in diversi paesi, tra cui Svizzera, Tunisia, Niger, Burkina Faso e Papua-Nuova Guinea.

Autore di una dozzina di pubblicazioni, Mondher Kilani dirige assieme a Claude Calame la collezione “Recherches/Terrains anthropologiques” della casa editrice La Découverte di Parigi.

17 dicembre 2010: con una serie di manifestazioni di piazza a Tunisi, scoppiano le proteste popolari in Tunisia contro la corruzione, la mancanza di libertà, la disoccupazione e il rialzo dei beni di prima necessità.

8-9 gennaio 2011: le forze dell’ordine reagiscono con violenza contro i manifestanti, provocando la morte di oltre una ventina di persone. La repressione fa accrescere però le proteste.

  

14 gennaio: la “rivoluzione del gelsomino” costringe il presidente Ben Ali a rassegnare le dimissioni e ad abbandonare la Tunisia.

25 gennaio: prende inizio anche in Egitto un modo di protesta popolare contro il regime trentennale di Hosni Mubarak.

31 gennaio: il presidente egiziano cerca inutilmente di frenare le proteste con la formazione di un nuovo governo. 

11 febbraio: centinaia di migliaia di manifestanti esultano per le strade della capitale, dopo l’annuncio delle dimissioni di Mubarak.

15 febbraio: i vento di protesta raggiunge anche la Libia. La popolazione scende dapprima in piazza contro il regime di Gheddafi a Bengasi e al Baida. Nei giorni seguenti i ribelli prendono il controllo di diverse città.

2–6 marzo: il regime di Gheddafi lancia una controffensiva, bombardando le città controllate dagli insorti. La Lega libica dei diritti umani parla di 6’000 morti.

17 marzo: il Consiglio di sicurezza dell’ONU adotta la risoluzione 1973 che prevede l’imposizione di una “no-fly zone” sui cieli libici e autorizza “tutte le misure necessarie” per assicurare la protezione dei civili.

19 marzo: scatta l’operazione “Odissey Dawn”. Le forze della coalizione, guidata da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, danno inizio ad una serie di bombardamenti sul territorio libico contro le forze di Gheddafi. 

Aprile: dall’inizio della “primavera araba”, rivolte e manifestazioni popolari si sono registrate in diversi paesi islamici del Nord Africa e del Medio oriente, tra cui Algeria, Siria, Yemen e Bahrein. 

Traduzione di Armando Mombelli

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