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75 anni di diritti umani, cosa c’è da celebrare?

collage con i volti degli alti commissari onu per i diritti umani ancora in vita
SWI swissinfo.ch ha parlato con i sette responsabili ONU dei diritti umani ancora in vita per capire quanto la Dichiarazione sia ancora di attualità. Illustration: Helen James / SWI swissinfo.ch

Nel 1948, il mondo si univa attorno a un documento rivoluzionario. La Dichiarazione universale dei diritti umani rispecchiava la convinzione condivisa del "mai più" e il fatto che l'umanità avesse bisogno di stabilire regole e principi per sé stessa, al fine di garantire che gli orrori della Seconda guerra mondiale non si sarebbero più ripetuti. SWI swissinfo.ch ha intervistato tutte le sette le persone ancora in vita che hanno ricoperto la più alta carica per i diritti umani alle Nazioni Unite per capire quanto la Dichiarazione sia ancora attuale.

C’è qualcosa da festeggiare in questo 75° anniversario? Vale la pena di ricordare ciò che sancisce la DichiarazioneCollegamento esterno: il diritto alla libertà di parola, all’istruzione, a non essere torturati, all’asilo se si è perseguitati e molto altro ancora.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, attualmente nel mondo sono in corso 55 conflitti. In Ucraina, in Sudan e a Gaza ci sono prove inconfutabili che sono stati commessi crimini di guerra.

Quasi tutte le nazioni del mondo – 192 Paesi – hanno firmato la dichiarazione. Ciò significa che i nostri Governi dovrebbero garantirci questi diritti e queste tutele. Ma lo fanno? Risposta breve: no. Risposta lunga: non tutti, non sempre.

Un documento bello da avere oppure obbligatorio

Le Nazioni Unite hanno il compito di sostenere la Dichiarazione universale. Ciò equivale ad aspirare a raggiungere l’impossibile. Eppure, si impegnano in questa missione richiamando, o addirittura condannando, i Governi che abusano dei diritti dei loro cittadini e cittadine.

La responsabilità si ferma all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, una carica che l’ONU non aveva nemmeno fino agli anni Novanta, quando la guerra fredda è finita e c’è stato, per quanto brevemente, un genuino ottimismo sul fatto che il multilateralismo potesse funzionare.

Nel corso di questo anniversario, ho avuto il privilegio di intervistare gli uomini e le donne che hanno guidato il lavoro delle Nazioni Unite in materia di diritti umani nel corso dei decenni. Potete ascoltare tutte queste interviste esclusive e approfondite nel nostro podcast Inside Geneva (in inglese).

L’ecuadoriano Jose Ayala Lasso, 91 anni, è stato il primo Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Mi ha raccontato che quando gli Stati membri dell’ONU stavano negoziando i termini dell’incarico, alcuni Governi ritenevano che i principi contenuti nella dichiarazione fossero dei begli obiettivi da avere, mentre altri pensavano che dovessero essere obbligatori e sostenevano la necessità di una qualche forma di meccanismo per sostenerli o addirittura per farli rispettare.

“Ho cercato di sostenere la seconda posizione”, ha raccontato Ayala Lasso a Inside Geneva.

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Grandi sfide

Ma come sappiamo, anche con il diritto internazionale e le convenzioni che lo sostengono, le Nazioni Unite hanno grandi difficoltà a far rispettare le regole. Quando Jose Ayala Lasso entrò in carica nella primavera del 1994, la guerra nell’ex Jugoslavia infuriava e il genocidio in Ruanda era appena iniziato.

Nonostante avesse un ufficio minuscolo e un budget ancora più esiguo, Ayala Lasso era determinato ad andare in Ruanda nel tentativo di fermare le violenze. “Dovevo andare”, mi ha detto. Ma quando arrivò in Ruanda era già maggio e il leader tutsi Paul Kagame si lamentava amaramente che il genocidio inflitto al suo popolo era “prossimo al completamento”.

Il fallimento delle Nazioni Unite in Ruanda, sebbene non sia colpa del nuovo commissario per i diritti umani, ha avuto un impatto su chi ha succeduto ad Ayala Lasso, Mary Robinson. In qualità di presidente dell’Irlanda aveva visitato il Ruanda diverse volte ed era stata accolta calorosamente. Quando è andata a rappresentare le Nazioni Unite l’accoglienza è invece stata diversa. “Quando sono arrivata come funzionaria dell’ONU mi hanno in un certo senso umiliata”, ricorda.

La sua esperienza dimostra il divario ancora enorme tra le speranze riposte nelle Nazioni Unite e ciò che i suoi funzionari e funzionarie possono effettivamente realizzare. Questa discrepanza è stata ancora più evidente dopo l’11 settembre 2001, quando gli Stati Uniti, la più grande superpotenza del mondo, hanno iniziato a mettere in discussione i principi più fondamentali dei diritti umani.

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mary robinson

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Mary Robinson: “Tutti hanno diritti umani fondamentali”

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Due pesi e due misure

A quell’epoca, l’Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani era la canadese Louise Arbour. Avvocatessa che ha fatto parte del tribunale per l’ex Jugoslavia, Arbour aveva già fatto notizia rinviando a giudizio Slobodan Milosevic per crimini di guerra. Quell’incriminazione, mi ha detto, è stata “per me una rivendicazione dell’importanza del diritto. Dello Stato di diritto, come principio di base dell’organizzazione della società moderna”.

Ma chi ricopre il ruolo di Commissario per i diritti umani non è né un giudice né un pubblico ministero, così quando gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, hanno messo in dubbio che la legge che vieta la tortura dovesse essere applicata nella guerra al terrorismo, Louise Arbour aveva solo il potere di persuasione o di condanna delle Nazioni Unite.

Sebbene oggi si chieda quanto sia utile “urlare nel deserto”, si preoccupa anche che la percezione di due pesi e due misure da parte delle superpotenze occidentali provochi frustrazione negli altri Paesi, che si sentono presi in giro. “Mentre l’Occidente promuoveva i suoi cosiddetti valori”, spiega Arbour, “altri hanno iniziato a notare che, fortunatamente per l’Occidente, i valori coincidevano sempre con i suoi interessi”.

Qualche risultato?

È lecito chiedersi, sentendo la frustrazione espressa da tanti ex commissari ed ex commissarie, se l’architettura dei diritti umani dell’ONU possa davvero ottenere qualcosa. Ma questa sarebbe una visione pessimistica. Basti guardare al lavoro sulla Siria della Commissaria ONU per i diritti umani Navi Pillay, e poi del suo successore Zeid Ra’ad al Hussein. Hanno prodotto diversi rapporti approfonditi, esaminando ogni aspetto oscuro del conflitto, con prove che potrebbero, a un certo punto, essere utilizzate in procedimenti giudiziari per crimini di guerra.

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Oppure prendiamo Michelle Bachelet, che ha lasciato l’incarico l’anno scorso. Ha subito enormi pressioni per un rapporto sul trattamento riservato dalla Cina alla sua comunità uigura. Ha confessato a Inside Geneva di aver subito “pressioni quotidiane” da parte di chi voleva pubblicarlo e di chi si opponeva.

“Dovevo fare il mio lavoro”, ricorda, il che significava non piegarsi a tali pressioni. Quando alla fine il rapporto è stato pubblicato, è stato molto duro, suggerendo che la Cina aveva commesso crimini contro l’umanità.

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Sfortunatamente per Bachelet, le polemiche sul ritardo hanno messo in ombra altri risultati che ha raggiunto, in particolare l’inserimento del razzismo sistemico, soprattutto da parte delle forze dell’ordine, nell’agenda dei diritti umani.

Per saperne di più sugli alti e bassi, le lacrime e le risate di questi campioni e campionesse dei diritti umani, vi invito ad ascoltare Inside Geneva. Ma vi lascio ricordandovi che Volker Türk, l’attuale Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, è determinato a puntare i riflettori sulla Dichiarazione universale, un documento che definisce “trasformativo”.

Chi lo ha preceduto è d’accordo con lui. “Non dobbiamo perdere la fiducia nella capacità degli esseri umani di agire correttamente”, afferma oggi Ayala Lasso. “I diritti umani sono la risposta”, dice Mary Robinson.

Louise Arbour ritiene che chiunque arrivi da un altro pianeta e legga la Dichiarazione universale “penserebbe di essere arrivato in paradiso”. Navi Pillay sottolinea che nessuno dei 192 Paesi che l’hanno firmata si è ritirato.

Zeid Ra’ad al Hussein spiega che “quello che stiamo facendo è cercare di rendere migliore l’essere umano. Chi potrebbe essere in disaccordo con questo?”. Michelle Bachelet è un po’ più pragmatica: “La Dichiarazione universale è ancora valida. Perché dà uno standard minimo di come possiamo vivere insieme”.

E Volker Türk, guardando ai 55 conflitti nel mondo, afferma che dobbiamo “imparare da queste crisi” e mettere i diritti umani al centro di tutto ciò che facciamo. Le Nazioni Unite, come sempre, sono ambiziose. Speriamo che quest’anno siano anche fonte di ispirazione.

Traduzione di Luigi Jorio

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