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“La democrazia diretta non è una democrazia di sondaggio”

Alain Berset ritratto a mezzo busto.
Il socialista Alain Berset presiede la Confederazione elvetica nel 2018. Daniel Rihs / 13 Photo

Alain Berset presiede quest'anno la Confederazione. Il quarantacinquenne socialista friburghese è il più giovane detentore di questa carica dal 1934. In un'intervista a swissinfo.ch, parla tra l'altro del suo ruolo di presidente, della sua visione della democrazia diretta e dello spinoso dossier europeo.

swissinfo.ch: Qualche giorno dopo la sua elezione a presidente della Confederazione, lei ha scritto a uno sfortunato candidato alla naturalizzazione a Nyon, nel cantone di Vaud, per manifestargli il suo sostegno. Perché?

Alain Berset: Non riesco a immaginare di fare politica senza emozioni. Vivere insieme, il rispetto reciproco, lo scambio e i contatti umani sono elementi indissociabili dall’azione politica che svolgo da 15 anni.

Alain Berset

Eletto in governo federale nel 2011, all’età di 39 anni il socialista friburghese Alain Berset è diventato uno dei membri del governo svizzero più giovani della storia. Da allora dirige il Ministero federale dell’interno, dove è responsabile della sanità, della sicurezza sociale e della cultura.

Nato a Friburgo nel 1972, sposato e padre di tre figli, ha studiato scienze politiche ed economiche all’università di Neuchâtel. Dopo essere stato ricercatore accademico e consulente politico, nel 2003 è stato eletto alla Camera dei Cantoni del parlamento. Camera che ha presieduto nel 2009.

Il 6 dicembre 2017 le due Camere del parlamento riunite in Assemblea federale lo hanno eletto presidente della Confederazione per il 2018, con 190 voti su 210 schede valide, un risultato definito “eccellente” dagli osservatori della vita politica federale.

Quando ho letto l’articolo che rivelava questo caso, ho percepito una famiglia in preda allo smarrimento e allo sconforto. Non posso affatto giudicare la procedura. Non so cosa sia successo e non è d’altronde di mia competenza. Tuttavia, molto spontaneamente, ho desiderato scrivere qualche parola e mandare un segno di sostegno a questa persona.

Desideravo semplicemente che la decisione delle autorità comunali di Nyon non intaccasse la motivazione di quella persona a perseguire i passi verso la naturalizzazione.

swissinfo.ch: La maggior parte dei titolari della presidenza della Confederazione cerca di porla sotto un segno distintivo. Lei no. Come mai?

A. B.: Non credo nella politica condotta a suon di slogan. Ci si impegna per la società nel suo insieme, nell’interesse di tutto il paese, non per singole cause. In Svizzera, la presidenza è una funzione che si condivide con altri. La si assume per un anno, poi la si trasmette ad un altro membro del collegio governativo. La sensazione di continuità è quindi molto forte. Certo, ci sono sfumature, un modo diverso di dire le cose, ma non si diventa presidente della Confederazione pensando di avere un anno per trasmettere le proprie idee.

swissinfo.ch: Occorrerebbe, come auspicato da Doris Leuthard, estendere a due anni il mandato presidenziale?

A. B.: Doris Leuthard è stata due volte presidente della Confederazione e ha quindi una certa esperienza in questo campo. Da parte mia, prima d’ora non ho mai esercitato questa funzione. Dunque potrò darle un parere più illuminato alla fine di quest’anno. Doris Leuthard ha sottolineato che i cambiamenti regolari rendono un po’ più difficile la continuità a livello internazionale, poiché i presidenti degli altri paesi di solito sono in carica per diversi anni.

La durata limitata del mandato presidenziale elvetico rende molto importante il coordinamento tra i membri dell’esecutivo. Poiché ci conosciamo bene e lavoriamo in stretta collaborazione, riusciamo a garantire questa continuità.

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swissinfo.ch: Nel suo discorso d’insediamento, lei ha affermato che la capacità di attuare riforme, di evolvere, di rimanere in movimento, è la chiave del successo elvetico. Tuttavia, nel 2017, l’importante riforma delle pensioni, che lei aveva portato avanti per sei anni, è fallita in votazione popolare. Ciò significa forse che la Svizzera sta diventando un paese che non si può riformare?

A. B.: Spero di no, anche se l’anno scorso abbiamo registrato dei fallimenti su due riforme molto importanti, ossia sull’imposizione delle imprese e sulla previdenza di vecchiaia. A breve termine si potrebbe quindi dire che le grandi riforme non funzionano più. Ma bisogna osservare questo su un lungo periodo di tempo. Spetta a noi coltivare questa capacità di muoverci e di riformare il paese.

In Svizzera siamo riusciti ad anticipare la maggior parte delle grandi evoluzioni. Nel 19° secolo, per esempio, la Svizzera è stato il secondo paese europeo, dopo la Gran Bretagna, ad industrializzarsi. Due secoli dopo, traiamo ancora beneficio dai frutti del coraggio che ha prevalso all’epoca.

Oggi, di fronte alla digitalizzazione e alla globalizzazione, nulla sarebbe più nefasto che restare indietro, mentre il mondo intorno a noi evolve rapidamente.

swissinfo.ch: Gli strumenti della democrazia diretta, benché siano alla base del sistema politico svizzero, non costituiscono un freno in questo mondo che evolve molto rapidamente?

A. B.: In effetti, la democrazia diretta crea sfide molto significative in relazione alla rapidità con cui si sviluppano le cose. A volte ci muoviamo meno velocemente che in altri paesi. Ma non è perché il mondo cambia rapidamente che si debba in discussione la democrazia nella forma che abbiamo. Negli ultimi venti o trent’ anni siamo riusciti ad adattarci piuttosto bene.

La peculiarità del sistema politico svizzero impone tuttavia determinate esigenze. In primo luogo, un panorama mediatico diversificato e di qualità, affinché i cittadini possano informarsi e formarsi un’opinione chiara in vista delle votazioni. Ma anche una responsabilità dei partiti politici nell’uso degli strumenti della democrazia diretta.

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swissinfo.ch: Con la bocciatura popolare di due importanti progetti sostenuti dal governo, nel 2017, anche in Svizzera stiamo assistendo all’emergere di una democrazia di protesta, nel solco dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti o della Brexit in Gran Bretagna?

A. B.: Vi sono effettivamente alcune somiglianze. Oggi, talvolta si dimentica che la democrazia diretta non è una democrazia di sondaggio, ma una democrazia decisionale. Non si può semplicemente inviare un segnale o pensare di rispondere a un sondaggio quando si mette una scheda nell’urna. Votare è un atto serio.

“Non si può semplicemente inviare un segnale o pensare di rispondere a un sondaggio quando si mette una scheda nell’urna. Votare è un atto serio.”

Cosicché, nel recente passato, dei cittadini hanno rimpianto il proprio voto dopo l’accettazione di alcune iniziative popolari, riconoscendo di non aver preso in considerazione tutte le conseguenze della loro decisione. Il voto di protesta può essere legittimo quando ci si oppone a una decisione politica. Se invece il voto di protesta riguarda le istituzioni o il modo in cui opera il paese, ciò è problematico.

swissinfo.ch: In questo contesto, c’è da temere l’iniziativa “No Billag”Collegamento esterno per l’abolizione del canone radiotelevisivo, che sarà sottoposta al voto popolare il 4 marzo?

A. B.: A mio modo di vedere, questa iniziativa non si iscrive in un movimento di protesta contro le istituzioni. Si tratta piuttosto di una conseguenza degli sconvolgimenti che colpiscono il settore dei media da una decina d’anni.

Da un canto, sono emersi Internet e le reti sociali, che hanno rivoluzionato il modo in cui l’informazione viene prodotta e diffusa. D’altro canto, la comparsa di giornali gratuiti ha dato l’illusione, soprattutto alla generazione dei giovani, che l’informazione possa essere prodotta senza costi.

Resta il fatto che No Billag “è un’iniziativa radicale, poiché chiede la pura e semplice abolizione del canone per finanziare il servizio pubblico audiovisivo, in un paese in cui occorre garantire l’informazione in quattro lingue nazionali. Il canone è il prezzo da pagare per la diversità mediatica in Svizzera.

swissinfo.ch: Il popolo svizzero probabilmente l’anno prossimo voterà su un’iniziativaCollegamento esterno dell’Unione democratica di centro (UDC, destra conservatrice) che chiede che la Costituzione federale prevalga sul diritto internazionale. Questo progetto la preoccupa?

A. B.: Questa iniziativa potrebbe isolare il paese. Da parte mia, sono convinto che la storia, l’identità e il successo della Svizzera siano fortemente legati alla sua apertura. Il nostro paese è sempre stato luogo di passaggio, scambi e incontri. A Ginevra, ad esempio, oltre il 30% della popolazione non ha il passaporto svizzero, e questo sin dal XV secolo. Peraltro, un terzo dei nostri posti di lavoro dipende dagli scambi economici con altri paesi.

swissinfo.ch: La Svizzera è sempre stata considerata il portabandiera della libertà, della dignità umana e dello Stato di diritto. Riuscirà a continuare a difendere questi valori in un mondo in cui gli interessi economici stanno diventando sempre più importanti?

A. B.: Ci siamo sempre impegnati molto per questi valori e continueremo a farlo. In questo senso lo sviluppo delle istituzioni internazionali nel nostro paese, in particolare a Ginevra, è molto importante. Siamo anche sempre stati presenti per offrire aiuto, proporre mediazione o buoni uffici. Naturalmente questo ruolo evolve in relazione al mondo che ci circonda, ma rimane molto importante per la Svizzera.

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swissinfo.ch: La Svizzera ospita molte multinazionali e negli ultimi anni è diventata il crocevia del commercio delle materie prime. L’iniziativa denominata ‘per multinazionali responsabili’Collegamento esterno vuole obbligare le aziende svizzere a rispettare i diritti umani e l’ambiente ovunque. Il governo federale respinge questa iniziativa. Non invia così un segnale negativo al resto del mondo?

A. B.: Il Consiglio federale riconosce l’importanza di questo dibattito e ha tenuto conto delle preoccupazioni dei promotori. Pur condividendo il loro obiettivo, ritiene che l’iniziativa in questione non sia lo strumento giusto per rispondervi. Questo è uno dei punti positivi della democrazia diretta: permette di mettere sul tavolo un problema, di discuterne e renderne consapevole l’opinione pubblica.

swissinfo.ch: In seguito alla primavera araba, la Svizzera ha bloccato quasi un miliardo di franchi appartenenti a dittatori e alle loro cerchie che sono caduti in Egitto, Libia e Tunisia. Sette anni dopo, però, nemmeno un franco è tornato in questi paesi. Come spiegate questa lentezza alle popolazioni spogliate dai loro ex dirigenti politici?

A. B.: La Svizzera desidererebbe agire molto più velocemente. Ma occorre farlo nel rispetto delle procedure legali e con la garanzia che questo denaro arrivi al posto giusto. Non è sempre facile sapere a chi e a quali condizioni può essere restituito il denaro. Infatti, anche se bloccati in Svizzera, questi fondi non cambiano proprietà finché non si può dimostrare la loro origine illecita.

swissinfo.ch: In qualità di presidente della Confederazione, quest’anno lei si occuperà dello spinoso dossier europeo. La ricerca di una soluzione con l’UE passa dalla negoziazione di un accordo quadro istituzionale che comprenda le relazioni bilaterali. Tale accordo sarà concluso nel 2018, come auspicato dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker?

A. B.: Non è possibile dirlo ora. Dapprima, si è dovuta trovare una soluzione interna per attuare l’iniziativa “contro l’immigrazione di massa“, accettata dalla maggioranza del popolo e dei Cantoni il 9 febbraio 2014.

“Dopo la visita di Jean-Claude Juncker a Berna in novembre, che ci aveva lasciato una sensazione positiva, ci sono stati diversi sviluppi sorprendenti e negativi.”

Il 2017 è stato un anno interessante perché ci ha permesso di riprendere gli scambi con Bruxelles in tutta una serie di settori. Ma dopo la visita di Jean-Claude Juncker a Berna in novembre, che ci aveva lasciato una sensazione positiva, ci sono stati diversi sviluppi sorprendenti e negativi.

La Svizzera si è dapprima ritrovata nella lista grigia dell’UE sui paradisi fiscali. Poi la borsa svizzera si è vista limitare a un anno il diritto di accesso ai mercati finanziari europei. Siamo disposti a proseguire gli scambi, ma la sequenza di dicembre non è favorevole e non facilita le cose. Dobbiamo intraprendere sin d’ora stretti scambi per vedere su quali basi di fiducia e cooperazione possiamo proseguire.

swissinfo.ch: Viste le circostanze, la Svizzera sarà davvero in grado di negoziare con l’UE da pari a pari?

A. B.: L’UE e la Svizzera hanno indubbiamente delle dimensioni e un peso molto diversi, ma ciò non ci impedisce di parlarci guardandoci dritti negli occhi. L’Unione europea è strategica per la Svizzera, ma anche la Svizzera è importante per l’Unione europea. Ciò vale in particolare per alcuni grandi paesi vicini.

swissinfo.ch: In occasione della visita di Jean-Claude Juncker, il Consiglio federale ha annunciato che per la seconda volta avrebbe 1,3 miliardi all’UE per contribuire allo sviluppo dei paesi più poveri dell’Unione. Non si sarebbe dovuto aspettare un po’ per avere una moneta di scambio con Bruxelles?

A. B.: Mentre tutto andava bene in novembre, non volevamo stabilire un legame esplicito tra il miliardo di coesione e l’accordo quadro istituzionale. Sembra legittimo che la Svizzera contribuisca alla coesione interna dell’UE, dal momento che ha un certo accesso al mercato europeo. Ma ne ridiscuteremo prossimamente.

swissinfo.ch: La resistenza all’interno del paese si preannuncia estremamente forte. Come convincerete l’opinione pubblica che anche questo accordo istituzionale è nell’interesse della Svizzera?

A. B.: Il rifiuto di aderire allo Spazio economico europeo (SEE) nel 1992 ha aperto una fase di incertezza, ma ha anche indotto la Svizzera a riflettere su alternative. Si è così scelta la via bilaterale. Questa si è sviluppata, si è dimostrata valida ed è stata più volte confermata dal popolo.

Ora si tratta di proseguire e completare questa via bilaterale. Ciò è nell’interesse del nostro paese, perché la nostra prosperità economica dipende dalle buone relazioni con i nostri vicini.

È quindi molto importante tenere lo stesso discorso in politica estera e interna. Sin d’ora in Consiglio federale discuteremo su come intendiamo procedere con le riflessioni e come comunicarle alla popolazione.

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(Traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)

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