Armi, il rompicapo di una produzione globalizzata
Il governo svizzero finisce regolarmente nel mirino delle critiche in relazione ad esportazioni di armi. Il blocco di una vendita di componenti di armi agli Stati Uniti ha recentemente messo in luce aspetti poco noti del commercio mondiale di materiale bellico.
L’esecutivo elvetico in gennaio ha posto il veto alla vendita di componenti di pistole, per un valore complessivo di circa 435mila franchi, che avrebbero dovuto essere assemblate negli Stati Uniti e poi destinate all’Arabia Saudita. Il provvedimento è stato motivato dal rischio che potessero essere usate per violare i diritti umani.
Le ultime statistiche sulle esportazioni svizzere di armi e loro componenti – che vanno da apparecchiature elettroniche e software a mirini, tubi, viti e molle – hanno sollevato seri dubbi da parte di pacifisti e difensori dei diritti umani, circa l’applicazione della legge sul materiale bellico.
Negli ultimi 12 anni la proporzione delle esportazioni di componenti è più che raddoppiata – dal 26 al 46%, attestandosi a un totale di 925 milioni di franchi – rispetto alle autorizzazioni rilasciate per i sistemi di difesa e armi complete.
Sia il Gruppo per una Svizzera senza esercito (GSsE) sia Amnesty International (AI) sospettano che alcuni produttori potrebbero aver spostato le loro attività per cercare di aggirare la severe disposizioni della legge svizzera riguardo alle esportazioni di armi.
Le due organizzazioni non governative hanno anche evidenziato quelle che considerano carenze nella politica d’informazione della Segreteria di Stato dell’economia (SECO), responsabile delle autorizzazioni di esportazioni di armi.
“La Svizzera è stata ripetutamente elogiata da una sorveglianza indipendente per la trasparenza delle informazioni sul commercio di armi di piccolo calibro e di armi leggere. Non credo che siamo meno trasparenti quando si tratta di altre armi”, ribatte Simon Plüss, capo del servizio Controlli all’esportazione della SECO.
Non trasparente
Jo Lang, uno dei leader del GSsE, accusa tuttavia l’amministrazione federale di “sistematica mancanza di trasparenza”. “Informa pubblicamente solo quando è costretta a farlo”, dice l’ex parlamentare nazionale Verde, aggiungendo che l’esportazione di determinati beni militari – secondo la Legge sul controllo dei beni a duplice impiego – non appare nelle statistiche periodiche sulle esportazioni di armi.
Patrick Walder, esperto della sezione svizzera di AI è più prudente. Egli riconosce che la Svizzera è tra i paesi più trasparenti in materia di vendita di armi. Ciò nonostante, sarebbe “immaginabile una [politica di] informazione più attiva della SECO, per esempio sui mezzi utilizzati dall’industria per aggirare le normative”, osserva.
Walder si chiede quanto possano essere efficienti il controllo degli utenti finali di armi svizzere e le norme in materia di componenti di armi. In particolare considerando una clausola che agevola le vendite a società private all’estero, se i costi di produzione per componenti costituiscono meno della metà del totale dei costi di un’arma.
Approvazione del parlamento
La stampa in gennaio ha accusato il governo e l’amministrazione federali di coprire la pratica frequente di esportazioni di armi, senza menzionare esplicitamente le deroghe concesse per facilitare le esportazioni verso un gruppo di 25 beneficiari, che dispongono di norme di esportazione analoghe. Si tratta in gran parte di paesi europei, nonché di Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Argentina. Paesi da lungo tempo partner commerciali della Svizzera.
Altre critiche sono state espresse sui calcoli svizzeri dei costi, che aggirerebbero severe prescrizioni.
La SECO replica che tutto è fatto alla luce del sole e che la Svizzera applica le norme di calcolo internazionali. “Eccezioni alle disposizioni restrittive sull’esportazione sono state approvate dal parlamento. Inoltre, la legge stabilisce che il governo informa la commissione parlamentare di controllo sulle esportazioni di armi su base annuale “, afferma Plüss.
Il capo del servizio Controlli all’esportazione della SECO sottolinea che gli esportatori cui sono state accordate condizioni speciali devono adempiere anche a una serie di altri requisiti.
Globalizzazione
Il governo, l’industria – ma anche le organizzazioni non governative (Ong) –concordano che l’aumento delle autorizzazioni di esportazione è principalmente una conseguenza della globalizzazione della produzione e del commercio, sia dei beni militari che di quelli civili.
“Sempre meno imprese svizzere vendono armi complete al giorno d’oggi. Si producono invece parti o componenti che vengono esportate per assemblarle altrove”, afferma Ivo Zimmermann, portavoce dell’industria meccanica svizzera Swissmem.
La divisione del lavoro fra industrie specializzate è un fatto che rende ancora più urgente l’introduzione di regole vincolanti, sostiene dal canto suo il pacifista Jo Lang.
Un esempio che illustra perfettamente la situazione attuale è quello a cui il governo elvetico ha posto il veto lo scorso gennaio. Le componenti di pistola sarebbero fabbricate da un produttore con sede in Svizzera, l’assemblaggio verrebbe effettuato negli Stati Uniti, da dove, in una fase successiva, le armi da fuoco sarebbero esportate e vendute alla Guardia reale dell’Arabia Saudita.
Il primo Trattato internazionale sul commercio delle armi (TCA) con vincoli legali è stato concluso nel quadro della conferenza dell’Onu, svoltasi dal 18 al 28 marzo 2013 a New York, e approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 2 aprile. Un mercato stimato a circa 70 miliardi di dollari all’anno.
L’intesa è stata raggiunta dopo anni di negoziati. Il testo stabilisce per la prima volta a livello mondiale gli standard da rispettare nel commercio internazionale delle armi convenzionali, vincolandoli al rispetto dei diritti umani.
Il documento non controlla l’uso interno delle armi convenzionali, ma stabilisce che gli Stati membri debbano dotarsi di normative nazionali sul loro trasferimento. Inoltre sono obbligati a rispettare il divieto di trasferire armi in caso di violazione di un embargo, atti di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Per autorizzare o meno l’esportazione, ogni Paese dovrà valutare se le armi potrebbero essere usate per violare i diritti umani o utilizzate da terroristi o membri della criminalità organizzata.
Il trattato entrerà in vigore quando sarà firmato da almeno 50 Stati.
Lobby
La SECO mette in guardia dal leggere troppo tra le righe degli ultimi dati sull’esportazione di componenti di armi. Il numero di autorizzazioni concesse non è necessariamente equivalente alle vendite effettive realizzate, dice Plüss. L’alto funzionario della SECO sottolinea inoltre che non si tratta di un aumento lineare da 100 milioni di franchi nel 2000 a 925 milioni nel 2012.
L’industria meccanica nega la supposizione secondo cui l’aumento delle esportazioni di componenti sarebbe legata all’inasprimento delle norme sulle esportazioni di armi. L’industria non è contraria alle restrizioni sulle esportazioni di armi in generale, sostiene Ivo Zimmermann. “Ma è fondamentale che tutti i paesi europei giochino ad armi pari, per evitare discriminazioni competitive”.
Il portavoce di Swissmem non conferma la notizia che l’industria potrebbe intensificare gli sforzi di lobbying per abbassare gli standard legali svizzeri delle regole di esportazione, in linea con quelle del Trattato internazionale sul commercio delle armi (vedi riquadro a fianco).
Amnesty ha espresso preoccupazione per il fatto che l’industria potrebbe utilizzare il risultato della conferenza delle Nazioni Unite a New York, in marzo, per spingere verso ulteriori concessioni. L’organizzazione sostiene che la Svizzera ha una responsabilità particolare in quanto paese neutrale, con una lunga tradizione umanitaria.
Simon Plüss assicura che non c’è alcuna pressione sull’amministrazione da parte dei fabbricanti di armi. Inoltre il capo del servizio Controlli all’esportazione della SECO non crede che il trattato internazionale avrà un impatto importante sulla legislazione svizzera.
Un postulato parlamentare, trasmesso al governo nel 2010, affinché sia vagliata la possibilità di un allentamento delle regole di esportazione di materiale bellico, sembra però aver messo in moto iniziative a livello politico, osserva Plüss.
Importazione, esportazione e transito di materiale bellico in Svizzera sono sottoposti ad autorizzazione federale.
La legge del 1996 è stata inasprita più volte. In particolare sono state introdotte disposizioni che proibiscono le esportazioni verso paesi coinvolti in conflitti o che utilizzano il materiale bellico per violare i diritti umani al proprio interno e una clausola sulle riesportazioni.
Nel novembre 2009, l’elettorato svizzero ha rifiutato un’iniziativa popolare che chiedeva di vietare completamente le esportazioni di armi.
Nel 2012 le esportazioni elvetiche di materiale bellico si sono attestate a circa 700 milioni di franchi, pari a un calo del 20% rispetto all’anno precedente. I principali paesi di destinazione sono stati la Germania, gli Emirati arabi uniti, l’Italia, gli Stati uniti e l’India. La Segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha autorizzato 2’400 richieste di esportazioni.
(Traduzione dall’inglese: Sonia Fenazzi)
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