La Svizzera alle prese con il Drago cinese
Lanciata alla conquista del posto di potenza mondiale numero uno, la Cina nella sua corsa coinvolge anche altri Stati, tra cui la piccola Svizzera. Come affrontare questa nuova situazione? All’interno del nostro Paese si moltiplicano le voci critiche sull’atteggiamento troppo conciliante di Berna. A livello di politica interna, economica ed estera.
La deputata nazionale Barbara Gysi è visibilmente preoccupata. In primavera alcuni colleghi parlamentari si erano mostrati reticenti nel sostenere il suo postulatCollegamento esternoo – per paura della Cina. “Temevano una telefonata da parte dell’ambasciata cinese a Berna o semplicemente non volevano grane con Pechino”, racconta la deputata socialista. Queste reazioni le danno molto da pensare: in fondo si tratta di un innocuo intervento parlamentare.
Nel postulato, Barbara Gysi chiede un esame del dialogo che la Berna intrattiene dal 1991 “in via riservata” con Pechino riguardo al rispetto dei diritti umani. Esorta inoltre il governo federale a pubblicare un rapporto in merito.
In giugno si è svolta la 16a tornata di questo dialogo. Nel comunicato stampaCollegamento esterno del Dipartimento federale degli affari esteri si legge che i colloqui avrebbero “consentito un confronto franco e reciprocamente critico sulle questioni inerenti ai diritti umani a livello nazionale e internazionale”.
L’Accordo sul libero scambio con la Cina è in vigore dall’estate del 2014. La Svizzera ha ratificato l’Accordo sebbene non contempli alcuna norma a salvaguardia dei diritti umani. Non sussiste infatti alcuna garanzia che le merci provenienti ad esempio dal lavoro coatto non arrivino sul mercato elvetico grazie alle agevolazioni doganali. In tutti gli altri accordi sul libero scambio sottoscritti nel passato recente dalla Svizzera si sottolinea l’impegno a favore dei diritti umani e della Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite. (Fonte: humanrights.chCollegamento esterno)
Sul successo di questi colloqui non c’è unanimità. Le organizzazioni non governative rivendicano da anni maggiori informazioni sul contenuto degli scambi. Fonti ufficiali rimandano invece al dialogo, ad esempio nel caso delle critiche sulla mancanza di disposizioni relative ai diritti umani nell’Accordo sul libero scambio siglato tra Svizzera e Cina nel 2013.
L’ambasciata cinese ha forse cercato di fare pressione su alcuni parlamentari svizzeri per influenzare le loro scelte politiche? “Può succedere”, commenta Christa Markwalder. La deputata liberale radicale parla per esperienza. Otto anni fa, quando presiedeva la Commissione della politica estera del Consiglio nazionale (Camera del popolo svizzera), si trattava di dibattere una semplice interpellanza. “Mi hanno telefonato invitandomi a cancellare l’intervento dall’ordine del giorno. Ho dovuto spiegare che il nostro sistema democratico funziona in maniera molto diversa da quello cinese”.
Specialmente quando si tratta del Tibet, la Cina non scherza. Lo conferma anche il Servizio delle attività informative della Confederazione nel suo rapporto sulla situazione 2016Collegamento esterno, che dedica un capitolo al “rafforzamento della Cina e la sua ascesa al rango di potenza globale”. La Svizzera ha dovuto prendere atto dell’”atteggiamento disinvolto e esigente” della Cina segnatamente per quanto concerne la comunità della diaspora tibetana nel nostro Paese.
“I ricevimenti ufficiali del Dalai Lama non sono più tollerati in alcun modo dalla Cina e sono oggetto di svariate misure di ritorsione”.
In settembre il Dalai Lama è stato ospite della Svizzera per la 15° volta. La visita è avvenuta in occasione del 50° anniversario dell’Istituto tibetano di Rikon, nel cantone di Zurigo. Si tratta dell’unico monastero al di fuori dell’Asia fondato su incarico della massima autorità spirituale del buddismo tibetano. Dal 2005 il Consiglio federale non ha più incontrato in via ufficiale l’ottantatreenne, sollevando regolarmente le critiche della comunità tibetana, cui contrappone la volontà di non voler alimentare il malcontento o politicizzare le visite, invero assai frequenti.
La Cina e la questione dello Stato di diritto in Svizzera
L’influenza della Cina su suolo elvetico si fa sentire. E non soltanto sulla classe politica: l’Associazione per i popoli minacciati (APM) e le organizzazioni tibetane hanno recentemente inoltrato una petizione che esorta governo e parlamento a tutelare maggiormente i diritti dei cittadini tibetani residenti in Svizzera.
In un rapportoCollegamento esterno pubblicato in primavera, le organizzazioni non governative avevano analizzato le ripercussioni dell’Accordo sul libero scambio sulla comunità tibetana, giungendo alla conclusione che l’atteggiamento prevaricatore della Cina sui tibetani in Svizzera sarebbe visibilmente peggiorato.
Ricordiamo l’episodio dell’autunno 2014 a Basilea: in occasione della Festa della luna una decina di attivisti dell’associazione Gioventù tibetana in Europa approfittando della ricorrenza e durante il discorso di benvenuto dell’ambasciatrice cinese hanno manifestato contro l’occupazione del Tibet da parte della Cina. Uomini della sicurezza cinesi hanno usato la forza per confiscare i cartelloni in loro possesso e spinto una donna a terra.
L’intenzione era di protestare in silenzio per non disturbare i festeggiamenti; queste le parole di un’organizzatrice della manifestazione, citata nel rapporto dell’APM. Lo scopo era di lanciare un chiaro segnale alla nostra ambasciata, ribadendo che si celebrava la cultura cinese mentre quella tibetana viene sistematicamente cancellata.
Per Angela Mattli, dell’APM, non ci sono dubbi: “Siamo di fronte a una chiara violazione della libertà di espressione e ad un abuso diplomatico assolutamente intollerabili in uno Stato di diritto come la Svizzera.” Il rapporto documenta anche casi di limitazione della libertà di movimento e del diritto alla sfera privata.
Le acquisizioni cinesi e la questione dell’indipendenza
La Cina esercita anche un influsso economico sulla Svizzera. Oltre 80 società rossocrociate sono già passate in mani cinesi, per un totale provvisorio di 46 miliardi di franchi. L’esempio più clamoroso è stato il rilevamento, nel 2016, del gruppo agro-industriale di Basilea Syngenta da parte della holding di Stato cinese ChemChina, per quasi 44 miliardi di franchi.
Questa crescente intrusione dello Stato cinese nell’economia elvetica alimenta le critiche della politica. Contrariamente ad altri Paesi, come la Germania o gli Stati Uniti, in Svizzera non sussiste infatti la possibilità di mettere il veto al rilevamento di impianti strategicamente rilevanti, ad esempio quelli legati all’approvvigionamento di energia elettrica. Diverse proposte in parlamento mirano ora a cambiare questa situazione.
Un altro boccone indigesto per i nostri politici è il fatto che le aziende svizzere interessate a fare business in Cina continuino ad incontrare moltissimi ostacoli di ordine burocratico. Voci critiche sostengono che la Cina isolerebbe il suo mercato interno impendendone l’accesso agli acquirenti esteri, mentre gl’investitori cinesi in Svizzera troverebbero le porte spalancate.
Nel suo rapporto sulla situazione 2016 il Servizio delle attività informative della Confederazione constata che “acquisendo imprese svizzere e, in misura crescente, anche alberghi svizzeri la Cina mira ad attingere al know-how auspicato. L’acquisizione di marche svizzere consente inoltre alla Cina di accedere al corrispondente patrimonio di buona reputazione. La collaborazione con la Cina non è però fondata sul principio della reciprocità”.
Gong Weiyun è responsabile della filiale della China Construction Bank (CCB) a Zurigo. In un’intervista rilasciata al portale cinese d’informazione Peng Pai nel 2015, poco dopo l’apertura della filiale zurighese, ha sottolineato che nessun’altra banca si era insediata a Zurigo in tempi tanto brevi. “La rapidità dei cinesi ha destato scalpore in Svizzera”. Ha poi proseguito ribadendo che l’Accordo sul libero scambio con la Svizzera era “una fantastica opportunità” per la Cina. “Non abbiamo dubbi sull’importanza della Svizzera: per noi funge da ponte.” Dalla conclusione dell’Accordo, un numero crescente di aziende cinesi e di governi locali investe in imprese svizzere o è interessato a rilevarle, ha proseguito. Per facilitare il business di queste PMI cinesi e svizzere sarebbe importante “promuovere dalla Svizzera lo sviluppo di un mercato offshore del renminbi “.
Le banche cinesi e la questione della responsabilità
In realtà il discorso non si ferma alle aziende e alle strutture alberghiere, ma coinvolge anche la piazza finanziaria svizzera. Paolo BernasconiCollegamento esterno è una figura di spicco in particolare nell’ambito della lotta contro il riciclaggio di denaro sporco. L’ex procuratore ticinese tiene d’occhio le banche cinesi stabilitesi a Ginevra e a Zurigo. La Svizzera sarebbe particolarmente interessante per la sua appartenenza ai Paesi occidentali senza essere tuttavia membro né dell’UE né della NATO, e per non dover neppure sottostare ai dettami della politica del presidente statunitense Donald Trump, afferma l’avvocato e professore di diritto.
“Pechino ha bisogno della Svizzera come punto franco per le sue banche, che da noi possono gestire le operazioni commerciali tra la Cina e l’Europa in moneta cinese”, continua Bernasconi, che si interroga anche su come la Svizzera intenda domare “questi giganteschi dinosauri”.
Visto che le banche cinesi sono in mani statali, i loro responsabili fanno parte delle cosiddette persone politicamente esposte. Una sorveglianza efficace e un eventuale perseguimento penale, ad esempio in caso di sospetto riciclaggio, dipendono quindi fortemente dalla collaborazione con lo Stato di provenienza. Bernasconi prevede pertanto nubi all’orizzonte per la Svizzera.
La Nuova via della seta e gli investimenti svizzeri
Manteniamo lo sguardo sulla politica estera: in parlamento già si teme che la Svizzera possa adeguare la sua agenda per compiacere la Cina, in particolare in vista del faraonico progetto da circa 1000 miliardi di franchi “One Belt, One Road”, da cui l’economia svizzera non vuole ovviamente essere esclusa.
Carlo Sommaruga è parlamentare e avvocato. Rappresenta tra l’altro Nawab Mir Brahamdagh Khan Bugti. Il politico, che si batte per l’indipendenza del Belucistan, si è rifugiato in Svizzera nel 2010 e da allora è richiedente l’asilo.
Il deputato nazionale socialista Carlo Sommaruga, membro della Commissione della politica estera, si esprime in questi termini: se la Svizzera intende consentire alle sue aziende di prender parte al progetto della Nuova via della seta mediante investimenti nei Paesi interessati, “allora il Consiglio federale deve stralciare dall’ordine del giorno le questioni relative ai diritti umani e alla democrazia in tali Paesi”.
Sommaruga prende l’esempio del Pakistan. “Mi pongo la domanda retorica se sia mai possibile che la Cina faccia pressione sul Consiglio federale per evitare che il nostro Paese accolga richiedenti l’asilo del Belucistan”, afferma. Il parlamentare non sa assolutamente spiegarsi perché la Svizzera ceda alle pressioni del Pakistan. “Credo proprio che ci sia lo zampino della Cina”.
(Traduzione dal tedesco: Lorena Mombelli)
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