Piattaforma aiuta i rifugiati climatici di tutto il mondo
La questione dei “rifugiati climatici” sta attirando l’attenzione a livello internazionale e viene considerata una delle più grandi sfide umanitarie di questo secolo. Secondo gli esperti, si tratta di un problema estremamente complesso. La Piattaforma sulle migrazioni dovute a catastrofi naturali figura tra le organizzazioni che cercano di trovare delle soluzioni.
In base alle previsioni del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), che ha sede a Ginevra, con un surriscaldamento del pianeta di oltre 2 gradi, l’innalzamento del livello del mare potrebbe sommergere entro la fine di questo secolo territori in cui vivono oltre 280 milioni di persone.
Già oggi molte regioni del mondo sono colpite ogni anno da disastri ambientali. Nel 2018, 17,2 milioni di persone in 148 paesi e territori hanno dovuto abbandonare le loro case a causa di catastrofi naturali. In Somalia, Afghanistan e diversi altri paesi 764’000 persone sono sfollate per via della siccità.
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Un piano d’azione per aiutare i rifugiati climatici
“Abbiamo una buona comprensione generale della portata del problema in termini di numero di persone costrette ad abbandonare le proprie case a causa di eventi catastrofici improvvisi. Ma non sappiamo quante di queste persone attraversano poi le frontiere”, rileva Walter Kälin, inviato speciale della Piattaforma sulle migrazioni dovute a catastrofi naturaliCollegamento esterno di Ginevra.
Questa piattaforma fa seguito all’Iniziativa NansenCollegamento esterno, un progetto intergovernativo, lanciato nel 2012 da Svizzera e Norvegia, che mira a fornire agli Stati degli strumenti per prepararsi ad affrontare le sfide della migrazione dovuta ai gravi effetti dei cambiamenti climatici.
Questione trasversale
I rifugiati climatici hanno cominciato ad attirare l’attenzione dei media internazionali, come è il caso di Ioane Teitiota dell’isola di Kiribati, nel Pacifico, sui cui si è chinato recentemente il Comitato per i diritti umani dell’ONU.
Questa problematica è estremamente complessa, fanno notare gli esperti. La Convenzione relativa allo statuto dei rifugiatiCollegamento esterno, firmata nel 1951, non contempla il cambiamento climatico quale motivo per fuggire dal proprio paese e cercare asilo altrove. La migrazione climatica è per lo più interna, non è necessariamente forzata e risulta spesso difficile definire l’influsso dei fattori ambientali o climatici.
“Lo sfollamento dovuto a catastrofi è davvero una questione trasversale”, spiega Kälin. “Ha a che fare con il cambiamento climatico, i disastri, la migrazione, l’azione umanitaria e l’aiuto allo sviluppo… Nella maggior parte dei casi lo sfollamento è multicausale”.
Più attori
Creata nel maggio 2016, la Piattaforma sulle migrazioni dovute a catastrofi naturali è una delle varie iniziative internazionali lanciate negli ultimi anni per aiutare le popolazioni più vulnerabili. Il progetto, avviato sotto l’egida di 19 Stati, tra cui la Svizzera, mira a fornire “una maggiore protezione alle persone sfollate oltre confine in relazione a catastrofi naturali e agli effetti dei cambiamenti climatici”.
Altre organizzazioni con sede a Ginevra sono molto attive in questo settore, come l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), che ha creato un portale sulle migrazioni ambientaliCollegamento esterno, e l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). In seguito ai colloqui sul clima di Parigi del 2015, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCC) ha inoltre istituito una task force speciale in questo settore.
Rispetto al 2012, anno in cui è stata lanciata l’Iniziativa Nansen, oggi vi è un maggiore interesse per gli sfollati in caso di catastrofi naturali e un riconoscimento generale del fatto che la protezione degli sfollati rappresenti una sfida per l’intera comunità internazionale, osserva Kälin.
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Secondo Etienne PiguetCollegamento esterno, professore all’Università di Neuchâtel ed esperto di politica migratoria, questa maggiore attenzione e il moltiplicarsi delle iniziative e degli attori non hanno portato però a sovrapposizioni o inutili competizioni.
“Le persone coinvolte nelle diverse iniziative si conoscono e condividono le informazioni. A lungo termine speriamo che ci sia più chiarezza su chi fa cosa, ma l’aumento del numero di attori è positivo”, ritiene Piguet.
Kälin è d’accordo: “Non è perfetto. Ma credo che siamo sulla strada giusta a un livello molto astratto. La grande sfida è tradurre tutto questo lavoro astratto in realtà”.
A differenza dell’OIM o dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di catastrofi (UNDRR), la Piattaforma sulle migrazioni dovute a catastrofi naturali non è un’organizzazione operativa. La sua attuale strategia consiste nell’aiutare gli Stati a scambiarsi le migliori pratiche per assistere gli sfollati transfrontalieri. Programmi regionali sono stati introdotti in America centrale, Sudamerica e Africa orientale.
“Potrebbe sembrare che non si produca nulla, ma abbiamo bisogno di questo tipo di istituzioni per consentire il dialogo tra i partner”, afferma Etienne Piguet.
Impegno svizzero
La Svizzera figura tra i paesi che si impegnano per affrontare la problematica degli sfollati provocati da catastrofi naturali e cambiamenti climatici. Dopo aver contribuito al lancio dell’iniziativa Nansen, la Svizzera rimane un membro attivo del gruppo direttivo della Piattaforma sulle migrazioni dovute a catastrofi naturali. Dal 2016 ha donato 1,1 milioni di franchi all’anno all’organizzazione, che conta sei collaboratori.
Il Dipartimento federale degli affari esteri finanzia anche il collegamento esterno del Global Knowledge Partnership on Migration and Development (KNOMAD), con sede a Washington, e ha un partenariato strategico con l’IGAD, volto a migliorare la gestione dei migranti e dei rifugiati colpiti da catastrofi naturali e dai cambiamenti climatici nel Corno d’Africa.
Il caso di Ioane Teitiota
Il 21 gennaio il Comitato per i diritti umani dell’ONU ha pubblicato una sentenza non vincolante per Ioane Teitiota, della nazione pacifica di Kiribati, che ha intentato una causa contro la Nuova Zelanda nel 2016 dopo che le autorità hanno negato la sua richiesta di asilo come rifugiato climatico.
Teitiota è migrato in Nuova Zelanda nel 2007 e ha chiesto lo statuto di rifugiato dopo la scadenza del suo visto nel 2010. Sosteneva che gli effetti del cambiamento climatico e l’innalzamento del livello del mare lo avevano costretto a migrare. È stato deportato a Kiribati nel settembre 2015.
Il Comitato ha confermato la decisione della Nuova Zelanda di deportare Teitiota, dicendo che nel suo caso non avrebbe corso un rischio immediato se fosse tornato, ma ha convenuto che il degrado ambientale e il cambiamento climatico sono alcune delle minacce più pressanti per il diritto alla vita.
“Senza un forte impegno nazionale e internazionale, gli effetti del cambiamento climatico negli Stati riceventi potrebbero esporre gli individui a una violazione dei loro diritti”, ha spiegato il Comitato. Ciò farebbe scattare l’obbligo di non respingimento, che proibisce di rimpatriare richiedenti asilo in un paese in cui sarebbero probabilmente in pericolo.
Secondo Etienne Piguet, non vi saranno più “rifugiati climatici” dopo questa decisione. “È una decisione simbolica. Dimostra il livello di consapevolezza del fatto che vi è un rischio di sfollamento per ragioni ambientali in alcune regioni e che in alcuni paesi la questione del non respingimento degli sfollati sta diventando di attualità”.
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