Dal 2020, gli stati industrializzati dovranno finanziare la transizione energetica nei paesi in via di sviluppo con 100 miliardi di dollari all’anno. Come misurare questi contributi spesso molto complessi? Diciotto paesi donatori hanno adottato la metodologia proposta dalla ministra svizzera Doris Leuthard.
«Fino a poco tempo fa, la questione del finanziamento delle politiche climatiche era stata un po’ trascurata», ha riconosciuto lunedì sera a Parigi Doris Leuthard.
La responsabile del Dipartimento federale dell’ambiente, dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni (DATECCollegamento esterno) aveva appena partecipato a due riunioni multilaterali dedicate al finanziamento dei cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo. Una prova che a meno di tre mesi dalla Conferenza sul clima (COP21Collegamento esterno), questo tema si annuncia cruciale per il successo, o il fallimento, del vertice di Parigi.
COP21, un appuntamento cruciale
Dal 30 novembre all’11 dicembre 2015, Parigi ospita la 21º Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP21/CMP11). È un appuntamento cruciale siccome dovrebbe sfociare in un nuovo accordo internazionale sul clima, applicabile a tutti i paesi, il cui obiettivo è di limitare a un massimo di 2 C il riscaldamento dell’atmosfera terrestre.
L’UNFCCC è una convenzione universale di principio, che riconosce l’esistenza di un cambiamento climatico di origine umana e che affida ai paesi industrializzati la responsabilità di lottare contro questo fenomeno.
La Conferenza delle parti (COP) rappresenta l’organo supremo della Convenzione. Si riunisce ogni anno durante delle conferenze mondiali in cui sono prese delle decisioni per rispettare gli obiettivi di lotta al riscaldamento globale. Le decisioni sono prese all’unanimità o per consenso.
Nel 2009 a Copenaghen, i paesi industrializzati si erano impegnati a sostenere la transizione energetica nei paesi più poveri con 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020. Un obiettivo che è ancora lontano dall’essere raggiunto. Secondo le stime dell’organizzazione non governativa Oxfam, l’importo per il 2013 si situa tra i 17 e i 20 miliardi.
«Non ci hanno chiesto una tappa intermedia», ha replicato la consigliera federale, rammentando che l’obiettivo è il 2020. Doris Leuthard ha inoltre contestato queste cifre, affermando che sottovalutano la realtà.
Scommessa vinta
Il problema è proprio qui: finora, nessuno o quasi si era messo d’accordo sul modo di contabilizzare le somme stanziate. «I dati attualmente disponibili non rappresentano un quadro completo dei contributi», osserva il DATEC. Venerdì e sabato scorso, Doris Leuthard ha così organizzato, assieme alla responsabile americana Caroline Atkinson, consulente di Barack Obama per le questioni climatiche, un incontro tra 18 paesi donatori, con lo scopo di fissare dei criteri di valutazione comuni.
La scommessa è stata vinta: gli Stati presenti alla riunione, tra cui Germania, Francia, Giappone e Gran Bretagna, si sono accordati su una «metodologia» comune. Un approccio che include, in maniera «trasparente», l’attività del settore privato e i finanziamenti realizzati in un quadro multilaterale.
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSECollegamento esterno) utilizzerà questi criteri per stilare, a inizio ottobre, il suo bilancio dei finanziamenti delle politiche climatiche. Si saprà quindi se i 100 miliardi sono a portata di mano o se rimangono invece un obiettivo irraggiungibile. Insomma, «se si è sulla buona strada oppure no», ha riassunto Doris Leuthard.
Guerre delle cifre
«L’iniziativa condotta dalla Svizzera è interessante», ritiene Alix Mazounie, responsabile delle politiche internazionali dell’ong Réseau Action ClimatCollegamento esterno. «La guerra delle cifre imperversa da due anni. Gli importi variano tra i 3 e i 175 miliardi di dollari!».
Il problema, sottolinea Alix Mazounie, è che i donatori sono tentati di stabilire dei criteri più ampi possibile per raggiungere un importo vicino ai 100 miliardi. «L’impatto climatico degli investimenti privati è però abbastanza discutibile e difficile da misurare, soprattutto se questi non sono direttamente associati a una politica pubblica».
Per Romain Benicchio, consulente politico di OxfamCollegamento esterno, saranno proprio le politiche pubbliche a essere determinanti. «La Germania ha promesso di raddoppiare, da 2 a 4 miliardi, i suoi finanziamenti climatici entro il 2020. È un esempio da seguire».
Per finanziare la transizione energetica, alcuni paesi europei, ma pure dei gruppi di paesi in via di sviluppo, avanzano soluzioni alternative. Ad esempio: tassare le transazioni finanziarie o le energie fossili. Proposte «utopiche», per Doris Leuthard, secondo cui sarà impossibile riunire una maggioranza attorno a una nuova tassa.
Limitare il riscaldamento a 2 gradi
Per ora, soltanto 56 Stati hanno presentato i loro «contributi nazionali», ovvero le loro proposte di lotta al riscaldamento climatico, che secondo la comunità internazionale non deve superare i 2 ºC. «Penso che ci sia uno slancio per giungere a un accordo a Parigi», ritiene Doris Leuthard. «Ma non bisogna farsi illusioni: al momento ci stiamo piuttosto dirigendo verso un riscaldamento di 3 gradi».
La consigliera federale non ha tempo da perdere e intende lavorare su un testo, per disporre perlomeno di una bozza di risoluzione finale. «I ministri hanno bisogno di un documento di lavoro per avere qualcosa in mano e approvare o rifiutare delle idee», ha affermato Doris Leuthard a Parigi. «Abbiamo messo un po’ di pressione sui capi negoziatori e sull’amministrazione francese».
Traduzione dal francese di Luigi Jorio
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Le grandi potenze vogliono giungere a un accordo globale sul clima per il periodo post 2020. A sei mesi dalla Conferenza di Parigi, rimangono tuttavia profonde divergenze. E gli obiettivi di riduzione delle emissioni presentati finora, tra cui quelli svizzeri, sollevano dubbi da più parti.
Il 2015 deciderà le condizioni di vita dei nostri figli e nipoti. Esagerato? Forse. Sta però di fatto che per molti responsabili politici ed esperti climatici, la Conferenza internazionale di Parigi di dicembre rappresenta una tappa decisiva per definire il futuro (climatico) del pianeta. L’obiettivo è un’intesa universale e vincolante per contenere il riscaldamento globale a 2°C rispetto alla media preindustriale.
Riscaldamento climatico in cifre
Emissioni mondiali: nel 2014 sono rimaste stabili (a 32,3 miliardi di tonnellate) rispetto all’anno precedente, indica l’Agenzia internazionale dell’energia, che spiega questa pausa con gli sforzi della Cina per ridurre il ricorso al carbone e sviluppare le energie rinnovabili.
Concentrazione di CO2: nel marzo di quest’anno ha raggiunto il valore record di 400 ppm (parti per milione). La concentrazione era di 354 ppm nel 1990 e di 359 nel 2000.
Principali emettitori: Cina e Stati Uniti sono responsabili del 45% delle emissioni mondiali.
Temperatura media terrestre: dal 1880 è crescita di 0,86°C (1,75°C in Svizzera). Quattordici dei quindici anni più caldi della storia sono stati registrati nel XXI secolo e il 2014 è stato l’anno più caldo mai misurato.
Dall’ultimo round negoziale, chiusosi la settimana scorsa a Bonn, sono giunti segnali positivi, rileva Bruno Oberle, a capo dell’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM). «Per la prima volta è chiaro che praticamente tutte le parti, compresi Stati Uniti, Unione europea e Cina, vogliono concludere un accordo a Parigi», indica Bruno Oberle in una risposta scritta a swissinfo.ch. Gli elementi chiave dell’accordo, tra cui l’obbligo di stabilire obiettivi vincolanti di mitigazione del cambiamento climatico, si stanno delineando in modo sempre più evidente, sottolinea.
«Sussistono però ancora grandi divergenze», puntualizza Oberle. Due sostanzialmente le principali questioni aperte: la forma giuridica del futuro accordo e la ripartizione degli sforzi di riduzione delle emissioni tra i vari paesi. «Devono avere tutti gli stessi obblighi oppure bisogna fare una distinzione tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo? E in caso di differenziazione, va mantenuto il regime che considera la Cina o Singapore tra i paesi in via di sviluppo, oppure bisogna tenere conto delle realtà, delle responsabilità e delle capacita attuali e future di ognuno?», s’interroga il responsabile dell’UFAM.
Dimezzare le emissioni entro il 2030
In vista di Parigi, tutti i 196 paesi membri della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici sono chiamati a presentare i propri impegni di riduzione (INDC, contributi nazionali volontari di riduzione delle emissioni) per il periodo post 2020. Se giudicati adeguati, verranno inclusi nell’accordo universale.
Nel mese di febbraio di quest’anno, la Svizzera è stato il primo paese ad annunciare i suoi obiettivi. Il governo elvetico si è fissato una riduzione del 50% entro il 2030 (rispetto ai valori del 1990) e del 70-85% entro il 2050.
Finora, sono una quarantina i paesi ad aver sottoposto i loro contributi volontari. Tra questi:
- Unione europea (28 Stati membri): riduzione di almeno il 40% entro il 2030 (rispetto al 1990) e dell’80-95% entro il 2050.
- Stati Uniti: riduzione del 26-28% entro il 2025 (rispetto al 2005). Riduzione dell‘80% entro il 2050.
- Russia: riduzione del 25-30% entro il 2030 (rispetto al 1990).
All’appello mancano ancora alcuni grandi emettitori, tra cui India e Brasile, che presenteranno i loro INDC non prima di ottobre. Molto atteso è soprattutto il programma di riduzione della Cina, il principale “inquinatore” al mondo, che alcuni mesi fa ha annunciato l’intenzione di voler raggiungere il picco di emissioni entro il 2030.
Le promesse non bastano
I contributi attualmente sul tavolo sono in linea con le raccomandazioni dell’IPCC. Gli esperti climatici delle Nazioni Unite ritengono che le emissioni dovrebbero ridursi del 40-70% entro il 2050, se si vuole limitare a 2°C il rialzo della temperatura terrestre. Un obiettivo riconosciuto anche dai paesi più industrializzati, che durante l’ultimo vertice del G7 si sono impegnati in favore di una “decarbonizzazione” dell’economia entro la fine del secolo.
Tuttavia, secondo il gruppo di monitoraggio indipendente Climate Action Tracker (CAT), le grandi economie industrializzate non stanno facendo abbastanza. Nel suo ultimo rapporto di inizio giugno, il CAT rileva che le attuali politiche dei paesi del G7 e dell’Ue riusciranno soltanto a stabilizzare, ma non a ridurre, le emissioni entro il 2030. Sulla base delle attuali promesse, l’aumento della temperatura terrestre sarà compreso tra 3,6 e 4,2°C, prevede il CAT, che parla di conseguenze «spaventose».
A tirare il campanello di allarme è pure l’organizzazione non governativa Oxfam. Nel suo nuovo rapporto evidenzia che cinque dei sette paesi del G7 hanno accresciuto il ricorso al carbone dal 2010. E quelli che non l’hanno fatto, Stati Uniti e Canada, hanno sostituito il carbone con altri combustibili fossili, sottolinea Oxfam.
Anche la Svizzera deve fare di più
I ricercatori del CAT puntano il dito anche contro la Svizzera. Nella loro valutazione, il contributo elvetico è giudicato «medio», ciò che significa che non è compatibile con il mantenimento del riscaldamento al di sotto dei 2°C. Inoltre, aggiungono, con le politiche e le misure attualmente in atto, la Svizzera non sarà in grado di soddisfare i propri impegni in materia di clima.
Un’analisi che conferma le valutazioni dell’Alleanza climatica, osserva Patrick Hofstetter, responsabile del dossier climatico ed energetico presso WWF Svizzera. Le riduzioni fissate dal governo elvetico sono «insufficienti e inaccettabili», dice. «La Svizzera non deve limitarsi alle raccomandazioni dell’IPCC, che concernono le emissioni globali. I paesi altamente industrializzati, che dispongono di tecnologie e di una migliore governance rispetto a paesi in via di sviluppo o emergenti, devono fare di più», insiste Patrick Hofstetter.
In una petizione sottoscritta da oltre 100'000 persone, l’Alleanza climatica chiede alla Svizzera una riduzione del 60% entro il 2030 e un abbandono completo delle energie fossili entro il 2050. Il settore dei trasporti e le economie domestiche offrono un ampio margine di riduzione, sostiene Patrick Hofstetter. «Oltre il 40% degli edifici continuano a essere riscaldati con olio combustibile e le statistiche mostrano che in due terzi dei casi i vecchi riscaldamenti non vengono sostituiti con sistemi più rispettosi del clima, come pompe a calore, impianti solari o caldaie a legno in pellet», osserva Hofstetter.
A lasciare perplesso il collaboratore del WWF è in particolare l’atteggiamento delle autorità svizzere. Il dossier climatico non è più prioritario, sostiene. «È abbastanza scioccante notare che negli INDC della Svizzera, il governo non abbia indicato come intende agire sul territorio nazionale», afferma Patrick Hofstetter. Il Consiglio federale ha comunicato di volersi basare «sulle strategie e le misure esistenti», come la tassa sul CO2 prelevata sui combustibili o il programma di risanamento degli edifici. Una bozza della sua politica climatica nazionale per il periodo 2021-2030 non sarà però pronta prima dell’anno prossimo.
Gli INDC della Svizzera sono chiari, trasparenti e ambiziosi, ribatte Bruno Oberle. Il direttore dell’UFAM rammenta che le emissioni pro capite sono sotto la media europea e che la produzione di elettricità (acqua e atomo) in Svizzera è oggi quasi a emissioni zero. «Anche per questi motivi il potenziale di riduzione della Svizzera è limitato», sottolinea.
10 giorni di trattative
A sei mesi dalla conferenza di Parigi, il negoziatore elvetico Franz Perrez si dice fiducioso. «Nella capitale francese si potrà concludere un accordo climatico con obblighi per tutti i paesi», si legge in una recente intervista al quotidiano bernese Der Bund.
Il tempo però stringe. Ai negoziatori rimangono soltanto dieci giorni di trattative ufficiali, in settembre e ottobre, per elaborare il testo che servirà da base per la storica intesa.
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Fonti: Ufficio federale dell’energia, Ufficio federale dell’ambiente, MeteoSvizzera, istituti di ricerca svizzeri, Global Carbon Atlas, IPCC. Immagini: Keystone / Reuters
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