“I morti aprono gli occhi dei vivi”
Le fosse clandestine in Messico, i 30’000 ‘desaparecidos’ in Argentina, il franchismo e il patto del silenzio, le migliaia di morti in Siria: violazioni dei diritti umani che esigono verità e giustizia. Ma cosa accade quando ci si scontra con un’impunità persistente? Un progetto svizzero cerca di dare una risposta a questa domanda.
“Il progetto ‘Right to Truth, Truth(s) through Rights: Mass Crimes Impunity and Transitional Justice’Collegamento esterno si interroga sul significato del diritto alla verità in un contesto nel quale la giustizia penale è inaccessibile, perché c’è un’amnistia, una politica negazionista o perché i responsabili sono già morti”, riassume la sua direttrice Sévane Garibian, professoressa alle università di Ginevra e Neuchâtel. “Come proteggere le prove o lavorare sui resti delle vittime, al di fuori della giustizia penale?”
L’ipotesi di partenza è la seguente: il diritto, oltre ad avere una funzione di regolamentazione, ha anche una ‘funzione cognitiva’, che in contesti di post transizione si fonda su tre tipi di prova: le testimonianze, gli archivi e i resti umani.
Finanziato dal Fondo nazionale svizzero (FNS), il progetto può contare sulla collaborazione di diverse entità svizzere – tra cui il Ministero degli affari esteri e Swisspeace – e internazionali, in particolare le università di Oxford e di Columbia e il Centro internazionale per la giustizia di transizione (ICTJ).
La Svizzera in ritardo
Con un approccio innovativo, interdisciplinare e internazionale, il progetto ‘Right to Truth, Truth(s) through Rights’ ha anche come obiettivo quello di colmare il ritardo accumulato dalla Svizzera in questo campo.
“La Svizzera è molto avanti per quanto riguarda il diritto internazionale, i diritti umani, il diritto internazionale umanitario, la mediazione e il trattamento del passato (‘Dealing with the past’)Collegamento esterno. Deve però ancora sviluppare l’insegnamento e la ricerca scientifica nel campo della giustizia transnazionale, in seno alle università”, afferma Sévane Garibian.
Il progetto analizza la situazione in diversi paesi del mondo, con un’attenzione particolare a quanto accaduto in Spagna e Argentina, un paese che considera “uno straordinario laboratorio per la giustizia post transizione”.
Argentina: “uno straordinario laboratorio”
Nello spazio di trent’anni, il paese sudamericano ha infatti ricorso a tutti gli strumenti giuridici possibili per far fronte ai crimini di massa commessi dalla dittatura militare (1976-1983): commissione d’inchiesta, processo penale, leggi di amnistia, grazia e perdono, processi di riparazione e infine abrogazione delle amnistie e riapertura dei processi penali.
Negli anni Novanta, le organizzazioni a difesa delle vittime e dei diritti umani hanno condotto una battaglia importante per la giustizia, denominata ‘¡ni olvido, ni perdón!’Collegamento esterno (“Né oblio, né perdono”): “Non potevano tollerare che si mantenesse l’impunità con leggi di amnistia e con la politica dell’indulto promossa da Carlos Menem”, ricorda Sévane Garibian.
Il caso argentino mostra come, di fronte all’impossibilità di ricorrere alla giustizia, possano nascere nuovi strumenti a difesa delle vittime e delle loro famiglie. “La lotta per il diritto alla verità ha consentito l’apertura di altre forme di processi, non penali, ma che hanno permesso di far luce su quanto successo”.
Gli anni Novanta, una pietra miliare
Il diritto alla verità, puntualizza l’esperta, implica l’obbligo da parte dello Stato di indagare, aprire gli archivi, creare giornate commemorative, lottare contro il negazionismo. Oltre, chiaramente, a facilitare la ricerca dei corpi delle persone scomparse, gestire le esumazioni e finanziare i test del DNA per il riconoscimento delle vittime.
E proprio negli anni Novanta, oltre allo sviluppo della giustizia penale internazionale, si è assistito a un vero e proprio ‘boom’ dei test del DNA, grazie anche al lavoro di sensibilizzazione delle Madri della Plaza de Mayo.
Le pratiche di esumazione e identificazione delle vittime possono essere portate avanti anche quando l’accesso alla giustizia penale è negato, afferma Sévane Garibian.
Il caso contrario della Spagna
Oltre all’Argentina, la ricercatrice ha studiato da vicino anche il caso della Spagna, un paese che “non ha rotto il patto di silenzio”.
Le famiglie delle vittime del franchismo – 130’000 persone scomparse – hanno esumato i corpi in modo più o meno clandestino, senza alcun sostegno da parte dello Stato.
“Ciò ha creato non pochi problemi. Idealmente le informazioni sui corpi esumati avrebbero dovuto essere registrate in una banca dati. Ma è complicato creare un archivio senza l’appoggio di un governo e senza fondi pubblici”.
I diritti dei morti
Il tema dei resti delle vittime è tuttavia essenziale e tocca tutti i paesi colpiti da guerre, dittature o violenze: ieri erano l’Armenia, il Guatemala o il Ruanda, oggi la Colombia, la Siria o il Mediterraneo, ultima fermata per migliaia di migranti.
“Si lavora molto sui diritti dei vivi, sui sopravvissuti o sulle famiglie delle vittime e ciò è fondamentale, ma bisogna anche occuparsi delle persone scomparse”, secondo Sévane Garibian.
Proteggere i diritti dei morti, significa anche proteggere i diritti delle persone ancora in vita. “Anche i morti hanno una dignità e questa deve essere protetta”. Questo è un aspetto fondamentale del progetto promosso da Sévane Garibian. Per la sua direttrice, che ricorda il proverbio secondo cui “i morti aprono gli occhi dei vivi”, “lavorare su questi temi non significa solo lavorare sul passato, ma anche sul presente e sul futuro”.
Traduzione dallo spagnolo, Stefania Summermatter
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