Dove democrazia diretta e federalismo svizzeri sono estromessi
"L’ultima parola spetta al popolo" è un principio sacro nel sistema politico svizzero. Ma il 20 settembre, quando si eleggerà il nuovo membro del governo federale, il popolo non potrà dire una parola. I membri dell’esecutivo elvetico sono infatti eletti dal parlamento. Un’eccezione nella democrazia diretta svizzera, che ha origini storiche e che il popolo stesso ha sempre voluto mantenere.
Sia il numero (sette) dei membri del governo, sia le modalità di elezione sono invariati dal 1848, vale a dire dalla fondazione dello Stato federale svizzero.
Un seggio vacante in governo
Il governo federale è composto di sette membri. Il liberale radicale Didier Burkhalter ha rassegnato le dimissioni per la fine di ottobre. Il Gruppo liberale radicale alle Camere federale deciderà il 1° settembre chi presentare come candidati ufficiali. L’elezione da parte del parlamento si terrà il 20 settembre.
“A quel tempo prevaleva il concetto di democrazia rappresentativa. La democrazia diretta era molto embrionale. A livello federale non esisteva il referendum facoltativo, introdotto nel 1874, e neppure l’iniziativa popolare, introdotta nel 1891. Perciò, nel 1848, era logico prevedere l’elezione indiretta del Consiglio federale”, spiega Nenad StojanovicCollegamento esterno, ricercatore e docente di scienze politiche all’università di Lucerna.
Ciò nonostante, già allora, in seno alla commissione della revisione costituzionale fu proposto di fare eleggere direttamente dal popolo l’esecutivo federale. Questo basandosi sulla prassi nei cantoni, dove l’elezione diretta degli esecutivi esisteva, precisa Nenad Stojanovic. Seppur per un solo voto, la proposta fu respinta probabilmente “perché con i mezzi di comunicazione di allora, era difficile immaginare una campagna nazionale dei candidati al Consiglio federale”.
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Nel corso degli anni l’idea di fare eleggere direttamente dal popolo l’esecutivo elvetico è rispuntata più volte, ma è sempre stata affossata. È il popolo stesso che non ha mai voluto saperne: ha seccamente rifiutato tre iniziative in tal senso. L’opposizione è persino aumentata: nel 1900 i no erano il 65%, nel 1941 il 67,6% e nel 2013 il 76,3%.
Secondo il politologo, non è così sorprendente che il popolo svizzero sia d’accordo di delegare questo compito al parlamento. Il sistema elvetico, infatti, è misto: si parla di democrazia semidiretta, vale a dire che la democrazia diretta è affiancata a quella rappresentativa. E soprattutto, il popolo svizzero solitamente è restio a cambiare quello che ritiene che funzioni. Effettivamente, nell’ambito dell’analisi del voto sull’iniziativa del 2013, il motivo principale indicato da chi aveva messo un no nell’urna era che giudicava assolutamente soddisfacente il sistema di elezione attuale.
Le regioni al posto dei cantoni, ma non vincolanti
Appare invece molto meno scontato, secondo il ricercatore accademico, il fatto che si sia riusciti a fare accettare al popolo che le condizioni di eleggibilità all’esecutivo elvetico sfuggissero a un altro principio intangibile della Svizzera: il federalismo. La clausola che impediva la presenza in governo di più membri di uno stesso cantone è stata sostituita nel 1999 con una disposizioneCollegamento esterno flessibile: “le diverse regioni e le componenti linguistiche del Paese devono essere equamente rappresentate”.
Quest’ultima, secondo Nenad Stojanovic, è “una pseudo-clausola non vincolante”, proposta “nel timore che uno stralcio puro e semplice della clausola cantonale sarebbe stato rifiutato in votazione popolare”.
Italianità esclusa da oltre 18 anni, ma…
In questo contesto si inseriscono le rivendicazioni del diritto del Ticino, cantone di lingua italiana, di essere rappresentato nel governo federale. Con sette eletti nel corso dei 169 anni dello Stato federale, il Ticino proporzionalmente alla sua popolazione è però già stato più rappresentato della maggior parte degli altri cantoni.
Anche nel confronto tra le sette grandi regioni geografiche della Confederazione, il Ticino risulta più rappresentato rispetto al suo peso demografico.
“Ma paradossalmente, proprio dall’introduzione della nuova clausola, nel 1999, nessun candidato italofono è più stato eletto nel governo federale. Lo stesso anno il ticinese Flavio Cotti ha lasciato il Consiglio federale e da allora la regione e componente italofona è stata esclusa”, puntualizza Nenad Stojanovic. In base alle sue analisi dettagliate di tutte le elezioni dei consiglieri federali dal 1999 in poi, il politologo conclude che la sostituzione della clausola cantonale con quella linguistico-regionale, di fatto, ha sfavorito i candidati ticinesi.
Clausola per coesione nazionale non per parità dei sessi
Nell’attuale corsa al governo per succedere al dimissionario Didier Burkhalter c’è un’altra “componente” che rivendica il diritto di essere equamente rappresentata: quella femminile. Completamente escluse fino al 1984, le donne – attualmente due su sette membri – sono ora nettamente sottorappresentate nel governo svizzero rispetto al peso demografico (50,4% della popolazione).
Pur essendo un fautore della parità di diritti tra i generi, il docente universitario precisa che “dal punto di vista concettuale non si devono fare confusioni: la logica della pseudo-clausola costituzionale non è che il Consiglio federale sia lo specchio del paese, ma che integri le diverse regioni e lingue, per la coesione nazionale. Perché in assenza di questa rappresentanza, a lungo termine una regione potrebbe decidere di separarsi. Questa era anche la logica della vecchia clausola cantonale. Le donne, non essendo concentrate in una parte geografica del paese, non rappresentano questo pericolo”.
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