Esportazione di materiale bellico sotto accusa
Alcuni esperti hanno criticato la legislazione svizzera sull’esportazione di materiale di guerra, sottolineando in particolare una mancanza di trasparenza sull’utilizzo finale. Le leggi elvetiche sono abbastanza restrittive, ma vanno applicate meglio, ritiene uno studio universitario.
Le critiche espresse da ricercatori delle università di Berna e Zurigo fanno seguito alla revoca, nel dicembre 2011, del divieto di esportare materiale bellico verso il Qatar.
Il blocco di sei mesi era stato deciso nel mese di luglio dopo la scoperta che munizioni prodotte dall’azienda svizzera Ruag, inizialmente destinate al Qatar, erano state trasmesse alla Libia, in violazione dell’accordo sulle esportazioni. Per la Segreteria di Stato dell’economia (SECO), responsabile della supervisione dell’esportazione di materiale bellico, si è trattato di «un errore di logistica militare».
Secondo Alexander Spring, coautore dello studio “Esportazioni svizzere di munizioni sotto esame – divergenze tra la legge e la pratica” condotto dal think-tank per la politica estera Foraus, la decisione di riprendere le esportazioni verso il Qatar non è stata presa in modo trasparente. Anche l’ispezione condotta per verificare la localizzazione del materiale bellico fornito, spiega a swissinfo.ch, solleva alcuni interrogativi.
«Non sappiamo nulla su queste ispezioni post-consegna», afferma Spring. «Si parla di un errore logistico. Ma non sappiamo se, nel caso più estremo, si sia trattato di uno sbaglio di una persona interna all’ambasciata svizzera in Qatar, che si è recata nei magazzini di munizioni e ha dato un’occhiata ad alcune casse, oppure se a sbagliare sia stato un esperto del ministro della difesa, solitamente responsabili di tali ispezioni».
In una mail inviata a swissinfo.ch, Simon Plüss, a capo del servizio Controlli all’esportazione della SECO, spiega che non è stata eseguita alcuna verifica post-esportazione «poiché lo stesso Qatar aveva confermato quasi subito che, a causa di un malfunzionamento logistico, le munizioni svizzere erano state consegnate all’opposizione libica».
Rappresentanti del governo, prosegue Plüss, si sono recati due volte a Doha per ottenere informazioni dettagliate sull’incidente e per discutere su come risolvere la situazione.
«La SECO decide se e in quali casi si deve procedere a una ispezione post-consegna. La procedura e lo scopo della verifica vanno discusse in maniera specifica assieme al paese di destinazione», spiega Plüss.
Esportazioni verso l’India
Anche per Tobias Schnebli, membro del Gruppo per una Svizzera senza esercito (GSSE), la mancanza di trasparenza sull’utilizzo finale del materiale bellico rappresenta un punto delicato. Schnebli cita l’esempio della vendita di mitragliatrici e fucili d’assalto ai servizi di polizia degli stati indiani di Orissa e Jharkhand, zone in cui migliaia di persone sono state uccise nel conflitto tra i ribelli maoisti Naxaliti e il governo indiano.
Nel 2011 la Svizzera ha esportato verso l’India materiale bellico per un valore di 7,4 milioni di franchi (6 milioni nel 2010), ciò che fa del subcontinente asiatico il 16esimo principale importatore di materiale bellico svizzero.
«È stato provato che la polizia dello Stato di Orissa ha arruolato giovani con meno di 16 anni per combattere i ribelli», afferma Schnebli, sottolineando a questo proposito un rapporto dell’ong Human Rights Watch (vedi link).
«La Seco – aggiunge – ci ha comunicato di voler procedere a delle verifiche. Per sapere chi è l’utilizzatore finale di queste armi riteniamo che le ong a difesa dei diritti umani debbano chiedere di poter partecipare a tali ispezioni. Altrimenti, per la polizia o l’esercito risulterebbe troppo facile insabbiare il tutto».
La partecipazione di un osservatore indipendente è una questione «molto delicata» che va analizzata «attentamente», annota Plüss, rammentando che le ispezioni post-consegna concernono pure la sovranità del paese in questione.
Le esportazioni verso Orissa e Jharkhand, aggiunge il collaboratore della SECO, «vanno considerate nella fattispecie». In alcuni casi, la Svizzera ha stipulato il diritto a procedere a ispezioni post-consegna e ha richiesto una conferma scritta che le armi non verranno utilizzate contro la popolazione civile.
«Bisogna tener conto che alcune delle armi consegnate sono concepite e impiegate per la protezione di personalità importanti. Queste armi sono abbastanza costose e per maneggiarle e mantenerle ci vuole gente esperta. Non vengono quindi messe nelle mani delle forze di polizia ordinarie, bensì in quelle delle unità speciali, più addestrate. Ciò riduce il rischio di abuso».
Legge repressiva
Nel 2011 la Svizzera ha esportato materiale bellico per un valore di 872,7 milioni di franchi, in aumento del 36% rispetto al 2010. L’incremento è dovuto alla vendita di aerei militari da addestramento agli Emirati Arabi Uniti, ha comunicato la SECO.
La legislazione svizzera vieta esplicitamente l’esportazione di materiale bellico verso paesi coinvolti in conflitti armati. Le vendite sono pure vietate se sussiste un forte rischio che le armi esportate vengano trasferite a un «destinatario finale indesiderato». La legge esclude poi i paesi che violano «in modo grave e sistematico i diritti umani» e quelli in cui esiste un forte rischio di impiego delle armi contro la popolazione civile.
La normativa elvetica sull’esportazione di materiale bellico è tra le più restrittive al mondo, riconoscono Alexander Spring e Tobias Schnebli. Sarebbe però opportuno apportare delle modifiche, dal momento che contiene ancora alcune incertezze legali, ritiene Spring. La legge lascia «troppo spazio alle interpretazioni», concorda Schnebli del GSSE.
Secondo Spring, anche il beneficio del settore per l’insieme dell’economia nazionale è discutibile. Le esportazioni di materiale bellico contribuiscono in effetti soltanto nella misura dello 0,4% al prodotto interno lordo.
L’industria bellica svizzera, osserva tuttavia il portavoce di economiesuisse Jan Atteslander, fornisce lavoratori altamente qualificati e prodotti di qualità ad altri settori industriali.
Il volume del traffico mondiale di armi nel periodo 2007-2011 è cresciuto del 24% rispetto al quadriennio precedente.
Il 44% del materiale bellico è stato importato dall’Asia e dall’Oceania, il 19% dall’Europa, il 17% dal Medio Oriente, l’11% dall’America e il 9% dall’Africa.
I cinque principali paesi importatori si trovano in Asia: India (10% delle importazioni mondiali di armi), Corea del Sud (6%), Pakistan (5%), Cina (5%) e Singapore (4%).
(Fonte: Stockholm International Peace Research Institute, 19 marzo 2011).
Il primo scandalo legato all’esportazione di materiale bellico svizzero risale alla guerra civile in Nigeria. Nel 1968 si è saputo che aerei del Comitato internazionale della Croce Rossa erano stati colpiti da missili fabbricati in Svizzera.
Dieci anni più tardi è emerso che gli aerei da addestramento PC-7 costruiti da Pilatus potevano essere facilmente modificati per il trasporto di bombe. Questi velivoli sarebbero stati utilizzati dalla CIA durante operazioni in Laos, Myanmar, Guatemala, Messico, Cile, Bolivia e Nigeria.
Più di recente, prodotti della azienda aeronautica svizzera sono stati individuati in Iraq, Africa del Sud e Darfur.
Nel 1972 un gruppo di pacifisti ha lanciato la prima di tre iniziative per vietare l’esportazione di materiale bellico dalla Svizzera. Tutte le iniziative, compresa quella del 2009 accettata soltanto dal 32% dei votanti, sono state respinte.
L’esportazione di materiale di guerra è tornata al centro della cronaca nel luglio 2011, quando alcune munizioni inizialmente vendute al Qatar sono state ritrovate in Libia, in violazione dell’accordo sull’esportazione.
Il gruppo controllato dalla Confederazione e attivo nelle tecnologie aerospaziali e nell’armamento ha realizzato nel 2011 un utile netto di 97 milioni di franchi, in crescita del 5,9%. In calo invece il fatturato, sceso dell’1,0% a 1,78 miliardi.
Le applicazioni nel settore civile hanno rappresentato il 48% delle vendite, mentre quelle nel settore militare il 52%.
La Confederazione non è solamente proprietaria di RUAG, ma anche il suo più grosso cliente. Attraverso il Dipartimento federale della difesa (DDPS) ha assicurato l’anno scorso il 37% del giro di affari.
La Svizzera ha rappresentato il 47% del volume d’affari totale di RUAG. Il resto è stato realizzato in Europa (42%), nel Nord America (7%) e Asia/Pacifico (2%.
Traduzione dall’inglese di Luigi Jorio
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