Armi svizzere per le guerre di questo mondo, accompagnate da missioni di pace e buoni consigli. Qualsiasi cosa sia - assurdità, pragmatismo o insensibile tornaconto personale - questa è la Svizzera. Il paese ha i suoi valori e le sue armi: deve fare una scelta tra i due?
Questo contenuto è stato pubblicato al
6 minuti
La Svizzera ha molte sfaccettature e ognuno racconta innumerevoli storie. Mi interessa questo Paese per la sua varietà. Racconto con piacere della sua agricoltura e delle sue banche, di diplomazia e di lotta svizzera, ma anche delle sue eccellenze industriali e culturali.
Una figura di spicco della politica estera della Svizzera è la diplomatica di alto livello Christine Schraner Burgener. Attualmente, la specialista di mediazione internazionale sta cercando soluzioni per il Myanmar (ex Birmania) in qualità di inviata speciale dell’ONUCollegamento esterno.
Il suo talento lo ha già dimostrato in Thailandia, quando i militari hanno represso le proteste popolari. Durante i disordini, che hanno causato la morte di 90 persone, Schraner Burgener ha riunito allo stesso tavolo vittime e rappresentanti del governo. Questo succedeva nel 2010. Nello stesso anno, la Svizzera ha esportato armi alla Thailandia per un valore di 331’680 franchi. Negli anni successivi, ancora di più.
Questo esempio mostra come una parte della Svizzera, la diplomazia, vuole garantire la pace e la mediazione, mentre l’altra, l’economia, vende armi. E tutto ciò negli stessi paesi in conflitto.
Danni per l’economia e la diplomazia
In questa costellazione, entrambi gli attori rischiano di essere danneggiati. Per quanto riguarda la diplomazia, nel caso della Thailandia la mediazione elvetica avrebbe potuto facilmente fallire. Per quanto concerne l’economia, la Confederazione avrebbe teoricamente dovuto annullare i contratti dell’industria mediante una frenata di emergenza, affinché l’esportazione di materiale bellico non compromettesse la mediazione svizzera.
All’inizio del 2017, la Thailandia è in effetti finita nel mirino dei controllori delle esportazioni di armi svizzere. La Confederazione ha obbligato l’azienda Rheinmetall Defence (ex Oerlikon Contraves) a rinunciare alla vendita di sistemi di difesa aerea. Il motivo: nel sud della Thailandia è in atto un conflitto. In effetti, il governo di Bangkok è impegnato in una lotta contro dei gruppi separatisti. Un conflitto che dura però da lungo tempo. Ad oggi, non è chiaro perché Berna abbia deciso proprio nel 2017 di non più autorizzare un’esportazione simile a quella avvenuta nel 2016.
Stessa azienda, stessa frenata di emergenza, ma con un paese diverso: il Pakistan. All’origine del dibattitto sull’esportazioni di armi, che si ripresenta oggi, anche in parlamento, c’era un’ordinazione effettuata dal Pakistan alla Rheinmetall: cannoni antiaerei per un valore di 100 milioni di franchi. Il Consiglio federale (governo svizzero) aveva autorizzato la vendita nel 2015. Poi, a metà 2016, l’aveva sospesa senza fornire troppe motivazioni.
Ora si sa però un po’ di più sui retroscena di questa svolta: dietro alla decisione c’era l’allora ministro degli affari esteri Didier Burkhalter. È stato lui a convincere la maggioranza dei sette membri di governo a opporsi alla transazione. Dopo le sue dimissioni dal Consiglio federale, Burkhalter si era espresso sull’esportazione di materiale bellico verso paesi in conflitto, dichiarando che: “Trovo che in questi casi bisogna essere chiari e dire di no”. In quell’occasione aveva anche spiegato che erano state proprie le divergenze attorno all’esportazione bellica in seno al governo federale a spingerlo alle dimissioniCollegamento esterno. A tal riguardo, aveva affermato che il governo svizzero “si è congedato dai valori fondamentali che per me, in quanto persona, sono essenziali”.
Come una decisione arbitraria
Visto dall’esterno, il no al Pakistan appariva però come una decisione del tutto arbitraria. Per quanto concerne il paese asiatico, i criteri di esportazione non erano cambiati di molto. Il conflitto nella provincia del Belucistan, che ricorda una guerra civile, esisteva anche negli anni in cui la Svizzera vendeva armi al Pakistan.
È stata questa brusca svolta nei confronti del Pakistan a spingere i produttori di armi a passare all’offensiva. Nell’ottobre 2016, tredici aziende produttrici di materiale bellico hanno concluso un patto. Il loro piano: mostrare quanti sono i soldi in ballo e influenzare la politica. Con meticolosa precisione, hanno presentato le ordinazioni che avrebbero potuto soddisfare se soltanto le leggi fossero state un po’ meno rigide.
E il destino ha sorriso loro. Nel settembre 2017 una nuova figura è arrivata in Consiglio federale. A Didier Burkhlater – il freno che voleva difendere le tradizioni svizzere – è subentrato Ignazio Cassis, che in materia di esportazione di armi è chiaramente dalla parte dell’industria.
Contenuto esterno
1’400 impieghi, 900’000 sfollati
Per la lobby dell’industria bellica è stata una boccata di ossigeno. Soltanto sei giorni dopo l’elezione di Cassis in governo, le 13 aziende svizzere hanno inviato un appello alla Confederazione: le norme per le esportazioni vanno allentate, per il bene del paese.
Ad accompagnare la lettera c’era una lista di tutti i contratti persi. Le aziende hanno documentato 48 richieste preliminari per le esportazioni che la Confederazione aveva respinto. Affari mancati per un valore di 220 milioni di franchi e che avrebbero creato 1’400 posti di lavoro.
Sulla lista dei desideri dell’industria bellica c’erano anche componenti antiaerei per la marina del Myanmar. Un paese, lo ricordiamo, dove la diplomatica Christine Schraner Burgener sta indagando per conto delle Nazioni Unite dopo che l’esercito ha scacciato 900’000 rohingya. L’ONU parla di pulizia etnica e di un genocidio con 10’000 morti.
L’economia con le sue armi e la diplomazia con i suoi valori. Sono due figlie della Svizzera, che vanno d’accordo. A patto che nessuna si avvicini troppo all’altra.
Traduzione dal tedesco di Luigi Jorio
Articoli più popolari
Altri sviluppi
Politica federale
Risultati delle votazioni federali in Svizzera del 24 novembre 2024
La vendita di latte crudo deve essere vietata o sono i consumatori e le consumatrici a dover decidere?
Le norme alimentari svizzere non consentono la vendita di latte crudo per il consumo diretto. Tuttavia, una scappatoia consente a 400 distributori automatici di latte crudo di farlo.
In che modo gli eventi politici o economici recenti hanno influenzato la vostra fiducia nei confronti del Governo svizzero?
L'immagine della Svizzera, diffusa all'estero, di un Paese in cui le autorità godono di grande fiducia da parte del popolo sembra traballare. Perché, secondo voi?
Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.
Per saperne di più
Altri sviluppi
Venti contrari sull’esportazione d’armi
Questo contenuto è stato pubblicato al
All’inizio dell’estate il Consiglio federale aveva annunciato la sua intenzione di allentare ulteriormente le regole per l’esportazione di armi, permettendo le vendite anche verso paesi coinvolti in un conflitto interno. + Maggiori dettagli sulla posizione del governo Eppure già oggi, scrive in un rapportoCollegamento esterno reso noto lunedì il Controllo federale delle finanze (CDF),…
Questo contenuto è stato pubblicato al
La decisione, motivata dalla volontà di mantenere in Svizzera capacità produttive nel settore degli armamenti, suscita però molte perplessità fra le organizzazioni che difendono i diritti umani e anche in parlamento. Lo scorso settembre, una dozzina di aziende svizzere che producono armamenti - tra cui RuagCollegamento esterno, General Dynamics European Land System – MowagCollegamento…
L’embargo in Medio Oriente ostacola le esportazioni svizzere
Questo contenuto è stato pubblicato al
L’industria elvetica degli armamenti teme di perdere contratti milionari a causa del divieto di vendere armi agli Stati del Medio Oriente. In Svizzera, le restrizioni all’esportazione di materiale bellico intendono impedire che le armi vengano usate per commettere violazioni dei diritti umani.
In seguito all’offensiva militare dell’Arabia Saudita contro i ribelli Houti nel vicino Yemen, il governo svizzero ha deciso nel mese di marzo di imporre restrizioni sulle esportazioni verso il lucrativo mercato mediorientale.
Già confrontata con il franco forte, l’azienda statale di armamenti Ruag comunica che dal marzo 2015 non ha ottenuto l’autorizzazione di esportare verso il Medio Oriente. «Le richieste di esportazione sono in sospeso per la maggior parte dei paesi toccati dalla moratoria», indica l’azienda in una e-mail spedita a swissinfo.ch. Il danno finanziario è stimato a «diverse decine di milioni di franchi», scrive Ruag.
Il pericolo, aggiunge l’azienda con sede a Berna, è di perdere terreno nei confronti di altri concorrenti a lungo termine. «Inoltre, la nostra base industriale in Svizzera rischia di indebolirsi. Se le restrizioni dovessero protrarsi, i siti di Ruag in Svizzera [che impiegano 4'300 persone] verranno colpiti in modo significativo».
La Segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha confermato che le severe restrizioni all’esportazione concernono anche il Kuwait, la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e l’Egitto, paesi coinvolti nel conflitto in Yemen.
Nel 2014, Bahrein e Emirati Arabi Uniti hanno effettuato ordinazioni per oltre 14 milioni di franchi ciascuno. Le ordinazioni dell’Arabia Saudita - un paese che negli ultimi anni è stato tra i grossi clienti di Ruag - sono state di poco inferiori ai 4 milioni.
Lettera di protesta
In giugno, diverse lobby sostenute da politici hanno inviato una lettera di protesta al governo, stando a un articolo della Neue Zürcher Zeitung (NZZ). Nella lettera si deplora che le restrizioni elvetiche hanno avvantaggiato gli esportatori di altri paesi, in particolare la Germania. Secondo la NZZ, anche l’attività del fabbricante di materiale bellico Rheinmetall Air Defence, con sede in Svizzera ma di proprietà tedesca, subisce le conseguenze del blocco delle esportazioni in Medio Oriente.
Le perdite dell’industria degli armamenti appaiono però sotto una luce diversa, se si pensa ai crimini di guerra perpetrati nel conflitto in Yemen, fa notare la sezione svizzera di Amnesty International (AI). «È risaputo che i caccia sauditi hanno bombardato obiettivi civili», sottolinea a swissinfo.ch Alain Bovard, esperto di commercio d’armi presso AI.
In Svizzera, prosegue, «la lobby delle armi è ben rappresentata e abbastanza potente per imporre delle modifiche nella legge che giovano agli interessi finanziari dei suoi membri». Alain Bovard fa riferimento alla controversa modifica legislativa dello scorso anno - adottata per un solo voto - che facilita le esportazioni di materiale bellico.
Con questa modifica, le esportazioni svizzere sono vietate soltanto nei paesi in cui sussiste un rischio importante che le armi vengano utilizzate per commettere violazioni dei diritti umani. Altrimenti, spetta al governo decidere caso per caso.
Indonesia, un cliente prezioso
Gli armamenti venduti all’estero rappresentano soltanto lo 0,26% di tutte le esportazioni elvetiche dello scorso anno. Tra i principali clienti ci sono la Germania e l’Indonesia, un mercato emerso nel 2014 e che sta ora colmando la lacuna lasciata dal Medio Oriente. Lo scorso anno, una cospicua ordinazione dell’Indonesia ha fatto salire il valore degli armamenti svizzeri venduti all’estero a 563,5 milioni di franchi (contro i 461 milioni del 2013).
Nei primi sei mesi del 2015 le vendite sono leggermente cresciute (217 milioni) grazie, ancora una volta, alle ordinazioni indonesiane. L’industria di materiale bellico è tuttavia lontana dalla cifra raggiunta nel 2011: 873 milioni di franchi.
Tangenti in India?
Malgrado una percentuale relativamente piccola se paragonata a quella di altri settori di esportazione, l’industria degli armamenti è considerata un ramo importante ed è il principale fornitore dell’esercito svizzero.
La natura stessa dei suoi prodotti pone però l’industria bellica sotto stretta osservazione, in Svizzera e all’estero. L’India ha ad esempio avviato un’inchiesta nei confronti di due aziende con sede in Svizzera accusate di aver versato delle tangenti per assicurarsi dei contratti.
Alcuni mesi fa, il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha però respinto la richiesta indiana di assistenza giudiziaria nei confronti della Rheinmettal Air Defence e della SAN Swiss Arms (entrambe in mani tedesche). Le informazioni fornite dalle autorità indiane non soddisfacevano i requisiti della legislazione pertinente [sull’assistenza giudiziaria internazionale per questioni penali] e l’MPC non è quindi stato in misura di dar seguito alla domanda di assistenza giudiziaria, si legge un comunicato. Nessuna delle aziende coinvolte ha risposto alle domande di swissinfo.ch.
Armi riesportate illegalmente
Non è la prima volta che l’industria svizzera degli armamenti finisce nel mirino. La legislazione sull’esportazione di materiale bellico è stata inasprita nel 2012, dopo la scoperta che delle armi di fabbricazione elvetica erano state riesportate verso Stati terzi.
Alain Bovard di AI osserva ad ogni modo che la Svizzera ha fatto in generale passi avanti per ciò che riguarda il commercio di armi. «In un paio di occasioni le autorità elvetiche si sono mostrate alquanto ingenue, ma il comportamento della Svizzera è tutto sommato positivo».
Non è stato possibile registrare l'abbonamento. Si prega di riprovare.
Hai quasi finito… Dobbiamo verificare il tuo indirizzo e-mail. Per completare la sottoscrizione, apri il link indicato nell'e-mail che ti è appena stata inviata.
Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.
Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.