Flussi di capitali: e se i Paesi ricchi fossero finanziati dai Paesi emergenti?
È un rompicapo per gli economisti: invece di fluire dai Paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo, i flussi di capitali vanno per lo più nella direzione opposta. Ogni anno, centinaia di miliardi di dollari lascerebbero così gli Stati emergenti per i Paesi ricchi, compresa la Svizzera.
Più di 160 miliardi di dollari, circa l’equivalente del prodotto interno lordo (PIL) dell’Ungheria: è l’importo “senza precedenti” che i Paesi sviluppati hanno stanziato per l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) nel 2020, ha comunicato in primavera l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE).
Nell’anno della pandemia, la metà degli Stati donatori hanno aumentato i loro contributi per aiutare i Paesi meno sviluppati a far fronte alla situazione. È il caso della Svizzera, che ha fornito 3,5 miliardi di dollari, quasi il 9% in più rispetto all’anno precedente.
Anche prima della crisi sanitaria globale, l’APS era in costante aumento ed è più che raddoppiato dal 2000, nonostante la crisi del 2008. Ogni anno, sono stati versati in media 120 miliardi di dollari, per un totale di più di 2’500 miliardi di dollari in 20 anni – quasi il PIL annuale della Francia.
Tuttavia, molte specialiste e molti specialisti relativizzano l’entità degli aiuti forniti dai Paesi dell’OCSE. Questo perché tanti Paesi, tra cui la Svizzera, non stanno facendo abbastanza in termini di impegni internazionali (leggete a questo proposito l’articolo di SWI swissinfo.ch qui sotto). Sebbene l’obiettivo dei membri del Comitato di aiuto allo sviluppo sia di destinare lo 0,7% del loro reddito nazionale lordo all’APS, questa quota ha raggiunto solo lo 0,32% l’anno scorso.
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La Svizzera, solidale “finché la situazione economica lo permette”
Secondo alcuni, questa situazione potrebbe anche suggerire l’idea che il denaro circoli a senso unico dai Paesi donatori a quelli in via di sviluppo, quando in realtà le cose non sono così semplici. È ad esempio ciò che ha scritto sul GuardianCollegamento esterno Jason Hickel, esperto britannico di economia politica e di disuguaglianze globali:
“Da tempo ci raccontano una storia (…) secondo cui le nazioni ricche dell’OCSE offrono generosamente la loro ricchezza alle nazioni più povere (…) per (…) farle progredire sulla scala dello sviluppo. (…) Questa storia è così diffusa (…) che ora la diamo per scontata”. Eppure, è vero il contrario: gli Stati ricchi ricevono molti più flussi finanziari dalle economie emergenti che viceversa.
Un deficit persistente
L’aiuto allo sviluppo non è certamente inteso come una compensazione finanziaria per tutte le disuguaglianze. Ma è “minimo rispetto all’ampiezza degli squilibri”, ritiene Rachid Bouhia, economista presso la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD), con sede a Ginevra.
Responsabile degli affari economici nella divisione ‘Globalizzazione e strategie di sviluppo’, Bouhia è co-autore di un documentoCollegamento esterno pubblicato nella primavera del 2020, che è uno dei lavori più recenti sull’argomento.
Il grafico di UNCTAD rappresenta il trasferimento netto di risorse finanziarie, cioè il totale degli afflussi di risorse e degli investimenti dall’estero, meno il totale dei deflussi di risorse (compresi gli aumenti delle riserve in valuta estera e i pagamenti di reddito agli investimenti esteri). La metodologia utilizzata è stata approvata dalle Nazioni Unite negli anni ’80.
La pubblicazione mostra che l’importo totale dei flussi finanziari in uscita dai Paesi in via di sviluppo supera di gran lunga quello in entrata dai Paesi ricchi (aiuti allo sviluppo, ma anche investimenti diretti esteri e flussi commerciali).
Un fenomeno di cui beneficia la Svizzera
Dato che il fenomeno è globale, non è possibile stimare fino a che punto ne trae beneficio la Svizzera. Ma essendo un centro economico di primo piano con numerosi atout (eccedenza commerciale, moneta stabile, attività finanziarie sicure, ecc.), la Svizzera “ha molte carte in regola” per attirare i flussi finanziari esteri ed essere uno dei Paesi che traggono beneficio del sistema, sostiene Rachid Bouhia.
La Svizzera, tra i maggiori centri mondiali per il commercio delle materie prime e sede di molte multinazionali attive nei Paesi in via di sviluppo, rischia anche di attirare flussi finanziari illeciti (spiegazioni più in basso). Le organizzazioni non governative (ONG) chiedono regolarmente alla Svizzera di fare di più. Ad esempio, il Global Financial Integrity ha deplorato un sistema bancario e fiscale ancora ingiusto.
Gilles Carbonnier, professore di economia dello sviluppo all’Istituto di alti studi internazionali e di sviluppo (IHEID) di Ginevra, nota che “in maniera multilaterale, la Svizzera ha fatto degli sforzi (…) con una serie di misure volte ad avere un sistema più equo in termini di tassazione e di fiscalità”, ma che “c’è ancora molta strada da fare”. Secondo il professore, “sarebbe nell’interesse della Svizzera prendere l’iniziativa per cercare di mettere ordine”.
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Come la Svizzera approfitta dell’aiuto allo sviluppo
Questo fenomeno “contraddice le teorie economiche neoclassiche, secondo le quali il capitale dovrebbe fluire naturalmente dai Paesi ricchi verso gli Stati carenti di capitale”, rileva Rachid Bouhia. “Dimostra anche che certi modelli di sviluppo proposti negli ultimi decenni non solo non hanno funzionato, ma hanno creato molta vulnerabilità”.
Le fughe di capitali sono il risultato di diversi fattori, ma sono particolarmente legate alla “fragilità finanziaria inerente all’indebitamento estero dei Paesi in via di sviluppo”, si legge nella pubblicazione.
Spinti a indebitarsi con l’estero per svilupparsi, alcuni Paesi hanno raggiunto livelli di debito molto alti, che li trascinano in una spirale: i pagamenti di interessi e i trasferimenti di profitti superano i redditi.
Le statisticheCollegamento esterno della ONG britannica Jubilee Debt Campaign, che si batte per la cancellazione del debito dei Paesi del Sud, mostrano che la percentuale delle loro entrate usata per il pagamento del debito estero è in aumento. Per esempio, è di circa il 60% in Gabon e del 46% in Angola, rispetto al 3-4% nella maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale e lo 0,4% in Svizzera.
Rachid Bouhia menziona anche il deficit commerciale di molti Paesi emergenti – che importano più di quanto esportano, o esportano materie prime i cui costi sono soggetti a forti fluttuazioni.
“Molti Paesi non sono riusciti a sviluppare un’industria sufficiente per esportare verso i Paesi sviluppati e sono rimasti bloccati nelle “trappole della povertà””, dice l’economista.
Un altro elemento è che “per proteggersi dal rischio, i Paesi in via di sviluppo hanno intrapreso una corsa per accumulare valute straniere, in particolare il dollaro”, e ciò che corrisponde a un’uscita di capitali per il Paese che compra, e a un’entrata per il Paese che stampa la valuta.
Decine di miliardi di flussi illeciti
Il disavanzo cumulativo per i Paesi in via di sviluppo tra il 2000 e il 2017 sarebbe così vicino agli 11’000 miliardi di dollari, di cui 500 miliardi di dollari nel solo 2017 (più del triplo dell’APS totale di quell’anno).
E queste sono solo le cifre ufficiali, che non tengono conto dei flussi finanziari illecitiCollegamento esterno (FFI, aggiunti a titolo informativo sul grafico di UNCTAD). Si tratta di transazioni criminali, di riciclaggio di denaro, di evasione fiscale, ecc. ma, soprattutto, di commercio legale “che non viene fatturato correttamente (…) a fini di ottimizzazione fiscale”, spiega il professore dell’IHEID Gilles Carbonnier.
In parole povere: attraverso delle astuzie di fatturazione, alcune multinazionali riescono a non dichiarare parte dei profitti alle autorità fiscali dei Paesi emergenti dove li hanno realizzati, per poi invece dichiararli in Paesi con regimi fiscali più vantaggiosi, come la Svizzera.
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Multinazionali svizzere, dei pesi massimi mondiali attivi in settori a rischio
Le FFI sono per loro natura impossibili da quantificare in modo preciso. L’ONG Global Financial Integrity stima che il loro valore annuale rappresenti circa il 20% del commercio totale dei Paesi emergenti con le economie avanzate. Gilles Carbonnier, che conduce ricerche in merito, è certo che “il fenomeno non è così massiccio, ma è comunque un problema reale”. Decine, se non centinaia di miliardi di dollari sfuggirebbero così a qualsiasi prospettiva di essere destinati all’aiuto allo sviluppo.
Non tutto è bianco o nero
Di fronte a tale constatazione, l’economista Liliana Rojas-Suarez chiede di evitare conclusioni affrettate. Le metodologie aggregate non possono riflettere né la situazione specifica dei singoli Paesi né la complessità del commercio, afferma la collaboratrice emerita del Centro per lo sviluppo globale (CGDev) di Washington. Queste cifre non costituiscono un’analisi, “ci raccontano una storia per iniziare l’analisi”, sottolinea.
Liliana Rojas-Suarez, specialista del legame tra flussi finanziari e sviluppo, insiste sull’importanza di considerarli da un punto di vista qualitativo e non solo quantitativo. In altre parole, demonizzare a priori i flussi di capitale in uscita (ad eccezione dei flussi illeciti) non avrebbe senso. L’investimento, che è centrale per lo sviluppo, richiede grandi trasferimenti di risorse, dice. Per quanto riguarda il debito, “ciò che è veramente importante è sapere se le risorse raccolte sono state destinate ad attività che creano crescita e posti di lavoro”.
D’altronde, aggiunge Liliana Rojas-Suarez, i deflussi di capitale possono anche essere “una buona notizia”, per esempio nel caso in cui un Paese decidesse di rimborsare un prestito in anticipo, il che comporterebbe anche un massiccio deflusso di denaro.
Una constatazione, diversi approcci
Poiché lo stesso sintomo potrebbe richiedere diverse diagnosi, in seno alle organizzazioni internazionali si discute di varie politiche per riequilibrare i trasferimenti di capitale. Per Liliana Rojas-Suarez, le due priorità sono, da un lato, la lotta contro i flussi illeciti e, dall’altro, una maggiore trasparenza dei prestiti tra nazioni.
L’esperta cita l’esempio dei crediti, spesso accompagnati da clausole di riservatezza, che la Cina concede ai Paesi africani nel quadro della Nuova Via della Seta. Per l’esperta di macroeconomia, solo la trasparenza permetterebbe di sapere realmente se questi prestiti massicci sono più un’opportunità che una trappola.
“I contratti dovrebbero essere pubblicati, dovremmo sapere quali sono i termini, in modo da poter valutare se vanno davvero a beneficio dei Paesi [in via di sviluppo] e non li espongono a un debito eccessivo”, dice.
Da parte sua, oltre all’aumento degli aiuti allo sviluppo, l’UNCTAD sostiene alcune forme di protezionismo, per permettere ai Paesi emergenti di sviluppare un’industria; l’organizzazione auspica anche più controlli sui capitali, “per mitigare l’effetto degli investimenti che entrano ed escono senza creare un reale sviluppo”, spiega Rachid Bouhia.
Da tempo, l’UNCTAD chiedeva anche l’assegnazione di diritti speciali di prelievo, cosa che ha finalmente ottenuto alla fine di agosto: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha annunciato un’iniezione record di 650 miliardi di dollari nell’economia mondiale, di cui 275 miliardi andranno ai Paesi in via di sviluppo.
Tali misure, fino a poco tempo fa tabù in organizzazioni come il FMI, stanno cominciando ad avere una certa risonanza, dice Rachid Bouhia. È il segno che la pandemia sta cambiando le cose?
Traduzione dal francese: Luigi Jorio
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