Le donne svizzere hanno fatto molta strada, ma rimangono discriminate
La Svizzera è stata investita dal movimento #MeToo e dalla crescente insoddisfazione delle donne con lo status quo. Molte cose sono cambiate dal 1971, quando le donne svizzere hanno ottenuto finalmente il diritto di voto.
La campagna nei media sociali contro le molestie sessuali e l’uguaglianza di genere, iniziata lo scorso anno negli Stati Uniti, ha dato nuova linfa all’odierno movimento femminista in Svizzera. Così ritiene Silvia Binggeli, capo redattrice della rivista femminile svizzera “Annabelle”, fondata 80 anni orsono.
Ha partecipato alla Marcia delle donne a Zurigo, un anno fa, ed è rimasta impressionata dal numero di donne e uomini di varie generazioni sceso in strada. Ritiene che oggi «un movimento femminista è in marcia. Vedo colleghe più giovani di me politicamente molto più attive rispetto a dieci anni fa».
Tuttavia, una vera uguaglianza di genere ancora manca, sia in Svizzera, sia negli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti il movimento delle donne è spesso descritto con l’immagine delle tre ondate: la prima è quella suscitata dalla prima conferenza sui diritti delle donne a Seneca Falls, New York, nel 1848. Ad essa hanno fatto seguito il movimento per i diritti civili negli anni Sessanta e Settanta e la terza ondata negli anni Novanta, sorta in parte come risposta al caso di molestie sessuali contro Anita Hill. Alcuni ritengono che oggi si assista a una quarta ondata.
In Svizzera il movimento ricorda piuttosto una lunga ascesa in montagna.
Fabienne Amlinger del centro interdisciplinare di studi di genere all’università di Berna (IZFG) spiega che «la metafora dell’ondata è difficile da applicare al contesto svizzero. Non ci sono state grandi mobilitazioni delle donne svizzere attorno a un solo obiettivo. C’erano varie ali del movimento svizzero che combattevano per diversi diritti».
Uno dei primi episodi noti di mobilitazione delle donne svizzere risale al 1847, quando 157 donne bernesi riuscirono a mettere fine alla pratica della tutela di genere, un diritto di custodia basato sul sesso, diffuso nel canton Berna.
Una donna che conosce bene la situazione sulle due sponde dell’Atlantico è Margrit Zinggeler, cittadina svizzera emigrata negli Stati Uniti quando aveva poco più di vent’anni.
Autrice di Swiss Maid: The Untold Story of Women’s Contributions to Switzerland’s Success (La storia mai raccontata del contributo delle donne al successo della Svizzera), Zinggeler osserva che «ci è stato raccontato che la storia della Svizzera è fatta di uomini, guerre e contratti. Raccontando la storia di molte donne silenziose e ridotte al silenzio che sono state essenziali al successo svizzero, possiamo capire come la cultura, le tradizioni e le istituzioni diano forma e influenzino la nostra comprensione del genere oggi e cosa serva per raggiungere la parità di genere».
La lunga strada verso la solidarietà
Zinggeler, professoressa di tedesco alla Eastern Michigan University, ricorda che c’è stato un forte movimento in favore dei diritti sociali ed economici, compreso l’accesso alla formazione secondaria e universitaria, attivo prima che la lotta riguardasse i diritti politici.
«Solo dopo che le donne hanno ricevuto un’educazione e si sono rese conto che l’uguaglianza non poteva essere raggiunta senza aver voce in capitolo nella politica, la situazione è cambiata».
C’erano anche grandi differenze fra le donne stesse e questa secondo Fabienne Amlinger è una delle ragioni per cui c’è voluto tanto per ottenere il suffragio femminile. «Le donne erano divise a causa dell’appartenenza partitica, del cantone di residenza, del divario fra aree rurali e città».
Un motivo di contrasto riguardava la tradizionale immagine della donna come casalinga, immagine iscritta nel codice civile svizzero fino al 1988. Zinggeler spiega che «questa immagine era fortemente influenzata dalla religione, ma anche dall’importanza data nella società svizzera alle competenze in ambito di gestione dell’economia domestica e di assistenza».
Solo negli anni Ottanta del Novecento si è messo fine nelle scuole alla divisione obbligatoria di genere, per cui le ragazze seguivano lezioni di lavori femminili ed economia domestica, i ragazzi lavori manuali.
Come raccontato dal film L’ordine divino (Die Göttliche Ordnung), una parte significativa della popolazione pensava che per le famiglie fosse meglio se le donne non erano coinvolte nella «sporca» politica. Queste paure sono ben illustrate da alcuni manifesti di propaganda della campagna contro il suffragio femminile.
Una rivoluzione legale
In un’intervista del 2011, sei anni prima della sua morte, Marthe Gosteli, pioniera delle lotte per il suffragio femminile, ha definito «estenuante» la lotta per i diritti politici.
Per Zinggeler è chiaro che il successo del 1971 «è stato il risultato di 100 anni di lotte e rivendicazioni». Dalla prima petizione rivolta all’Assemblea federale (le due camere del parlamento) nel 1886, le donne hanno fatto ripetutamente ricorso a denunce di incostituzionalità, referendum, petizioni per ottenere pari diritti. Eppure nel 1959, in occasione del primo voto a livello nazionale sul suffragio femminile, il 65% degli uomini ha deposto un no nell’urna.
Anche dopo il 1971, il movimento delle donne in Svizzera «ha rispettato in ampia misura le regole», afferma Zinggeler, ricorrendo a petizioni e altri strumenti legali per raggiungere i propri scopi.
Negli Stati Uniti invece il movimento per la liberazione della donna fece ampio uso di tattiche conflittuali e provocatorie come lo sciopero, le proteste di massa, i sit-in. L’immagine delle femministe che bruciano i loro reggiseni è associata così fortemente con il movimento che molti americani la prendono ancora oggi per vera, nonostante la sua falsità.
In Svizzera c’è stato uno sciopero nazionale delle donne nel 1991 per protestare contro le titubanze nell’applicare l’articolo costituzionale sulla parità fra i sessi. Ci sono anche altri momenti di scandalo, per esempio quando la mancata elezione della socialista Christiane Brunner nel governo federale ha suscitato ampie proteste e ha contribuito a rilanciare il processo di trasformazione della politica svizzera verso una maggiore uguaglianza di genere.
Amlinger osserva che, «com’è noto, il sistema politico federalista della Svizzera può richiedere molto tempo per raggiungere un traguardo. Spesso però i progressi sono persistenti e non possono essere rovesciati facilmente e in fretta».
La parità fra i sessi è stata inclusa nella Costituzione federale nel 1981 e il congedo maternità è stato definito per legge nel 2005: due obiettivi che negli Stati Uniti non sono ancora stati raggiunti. Inoltre, altri diritti presenti in entrambi i paesi, per esempio il diritto di aborto, sono esposti a forti pressioni negli USA.
Femminismo «alle proprie condizioni»
La lotta per l’uguaglianza di genere è ben lungi dall’essere conclusa, sia in Svizzera, sia negli Stati Uniti. Lo scorso anno, il governo federale si è schierato contro un’iniziativa popolare che chiede l’introduzione di un congedo paternità. La discriminazione sul posto di lavoro, la disuguaglianza salariale e le molestie sessuali rimangono sfide aperte in entrambi i paesi. Zinggeler aggiunge che altri punti controversi in Svizzera sono l’obbligo di servizio militare per i cittadini maschi e la prostituzione, che è legale e regolamentata.
L’odierno movimento femminista va oltre la revisione delle leggi. La questione è anche come far sì che le leggi siano applicate, un risultato che può essere ottenuto solo attraverso l’impegno di donne e uomini di tutte le estrazioni sociali.
Silvia Binggeli di Annabelle spiega che «la Svizzera non ha star di Hollywood che difendono la causa dei diritti delle donne, com’è il caso negli Stati Uniti, ma c’è una vivace comunità di imprenditrici, intellettuali e creative che stanno ispirando una nuova generazione di donne ad agire a modo loro e alle proprie condizioni».
Nel suo saggio del 2014, Dovremmo essere tutti femministi, l’autrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie afferma che essere femminista significa riconoscere che «esiste un problema con il genere così com’è concepito oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio».
Uguaglianza salariale – superare lo scarto di genere
In Svizzera il principio «paga uguale per uguale lavoro» è iscritto nella Costituzione e nella legislazione federale. Tuttavia secondo i più recenti dati (2014) le donne guadagnano quasi il 20% in meno rispetto agli uomini nel settore privato e quasi il 17% in meno nel settore pubblico.
La questione se il parlamento svizzero debba adottare misure legali per costringere i datori di lavoro a rispettare gli obblighi iscritti nella legge federale sulla parità dei sessi del 1995 è stata oggetto di ampi dibattiti negli scorsi anni.
A fine febbraio il Consiglio degli Stati (la Camera dei Cantoni) ha deciso di rinviare al governo una revisione di legge che avrebbe costretto le aziende con oltre 100 dipendenti a realizzare e pubblicare un monitoraggio annuale sulla parità salariale.
La proposta ha suscitato critiche da parte di tutte le aree politiche: alcuni la ritengono troppo poco incisiva, altri pensano che rischi solo di creare una costosa burocrazia addizionale, senza che le donne ne traggano beneficio.
Il dibattito riflette la difficoltà nel comprendere quella che è stata definita una differenza salariale «inspiegabile», in riferimento allo scarto che non può essere giustificato con l’educazione o il settore professionale. La differenza salariale inspiegabile è stimata attorno al 7%, vale a dire che in media una donna ogni anno guadagna 7’000 franchi in meno di un uomo. La proporzione inspiegabile potrebbe dipendere da motivi inconsapevoli o da una discriminazione consapevole, ma potrebbe anche essere il risultato di una scelta da parte delle donne. Questa scelta potrebbe essere condizionata dalla disponibilità di offerte per la custodia dei bambini o dal sostegno fornito per gli studi.
Jessica Davis Plüss
È una cittadina statunitense che vive a Berna. È consulente indipendente e autrice nell’ambito della sostenibilità aziendale e del ruolo dell’economia nella società. Negli ultimi cinque anni ha pubblicato numerosi studi e articoli sulla maniera in cui le aziende potrebbe migliorare la parità di genere al loro interno.
Traduzione dall’inglese di Andrea Tognina
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