I diritti umani ai tempi di Twitter
Vale ancora la pena oggi d'interrogarsi sui diritti umani? Le questioni importanti non sono ormai state individuate? swissinfo.ch lo ha chiesto a Helen Keller che da ottobre lavorerà come giudice alla Corte europea dei diritti umani.
Professoressa di diritto pubblico, diritto europeo e diritto pubblico internazionale all’Università di Zurigo, Helen Keller è stata eletta dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 12 aprile 2011. Il mandato a Strasburgo ha una durata di nove anni. La Keller – che dal 2008 rappresenta la Svizzera in seno al Comitato ONU dei diritti umani – entrerà in carica il 4 ottobre.
swissinfo.ch: Che ruolo hanno i diritti umani nel nostro quotidiano?
Helen Keller: I diritti umani riguardano molti ambiti della nostra esistenza. Pensi a Fukushima. Di per sé, una centrale nucleare non ha nulla a che vedere con i diritti umani. Ma a partire dal momento in cui le autorità lavorano male al punto da tangere il diritto alla vita, allora il quadro cambia e anch’esse diventano una questione inerente ai diritti umani.
O pensi alla rivoluzione in atto in molti paesi arabi. Oggi è impossibile pensare ad una libertà d’espressione e di stampa che non contempli i nuovi mezzi di comunicazione come facebook e twitter.
I diritti umani non sono scolpiti nella pietra; ed è un bene che sia così. Adattare la giurisprudenza in materia tenendo in considerazione le nuove potenziali minacce è un diritto e un dovere.
swissinfo.ch: Da ottobre lei sarà uno dei 47 giudici della Corte dei diritti umani di Strasburgo. Il suo predecessore, Giorgio Malinverni, ha dichiarato che si tratta di un lavoro faticoso fatto soprattutto di letture. La attira?
H. K.: Mi attirano i casi difficili, che offrono la possibilità di mettere in luce nuovi aspetti del diritto fondamentale. I molti casi di routine, quelli che riguardano ad esempio la durata eccessiva dei processi, non sono certo la cosa più appassionante. Ma trattando 30-40 casi normali, forse è possibile scoprire qualcosa d’interessante e in quel caso trovo stimolante avere la possibilità di innovare la giurisprudenza.
Nei processi fondati essenzialmente su atti scritti, l’aspetto interessante è dato dalle discussioni con i colleghi. È un dialogo che apprezzo molto, perché quando ci si trova di fronte a domande che riguardano i diritti umani, spesso la risposta non è immediata.
swissinfo.ch: Il lavoro di giudice a Strasburgo le permetterà di continuare a svolgere le sue attività attuali?
H. K.: Devo rinunciare a tutto ciò che potrebbe intaccare la mia indipendenza e la mia disponibilità in termini di tempo. Non potrò più fare delle perizie e dovrò rinunciare anche al mio mandato nel Comitato ONU dei diritti umani, perché mi impegnerebbe troppo.
Per quanto riguarda l’insegnamento, sono tenuta a limitarlo al campo dei diritti umani. Inoltre, potrò salire in cattedra solo durante i periodi di vacanza della Corte.
swissinfo.ch: Il numero di ricorsi inoltrati alla Corte europea dei diritti umani è elevato. Due anni fa, l’ambasciatore svizzero a Strasburgo, Paul Widmer, ci disse che la Corte rischiava di rimanere vittima del suo successo. La situazione è cambiata?
H. K.: No. Ci sono più di 140’000 ricorsi pendenti e questo nonostante negli ultimi dieci anni il tribunale abbia aumentato considerevolmente la sua efficienza. Ogni anno vengono emesse sempre più sentenze. Il problema è che anche il numero dei ricorsi cresce in continuazione.
La situazione è drammatica. Nel 2010, quando presiedeva il Consiglio d’Europa, la Svizzera ha spinto molto per arrivare ad un cambiamento. Uno dei temi importanti, confluiti nella dichiarazione di Interlaken, è quello della sussidiarietà.
swissinfo.ch: Cosa intende per sussidiarietà?
H. K.: La Corte e la Convenzione europee dei diritti umani dovrebbero essere solo l’ultima istanza alla quale una persona che si ritiene lesa nei suoi diritti dovrebbe potersi rivolgere. Lo stato chiamato in causa dovrebbe avere sempre la possibilità di lasciar giudicare una presunta violazione dei diritti umani da un tribunale nazionale, prima che a Strasburgo.
Ovviamente, questo presuppone sistemi nazionali funzionanti per quanto riguarda la difesa dei diritti umani. Questa condizione non è data ovunque, soprattutto non nei paesi dell’ex blocco sovietico. In questi stati, molte persone si rivolgono direttamente a Strasburgo, perché non hanno fiducia nei tribunali nazionali.
swissinfo.ch: Visto il numero di pendenze, molte persone rischiano di morire prima di veder trattato il proprio caso. Che fare?
H. K.: L’ultima revisione ha alzato l’asticella dando al tribunale la possibilità di non entrare in materia se i casi non presentano mancanze gravi e se le istanze nazionali li hanno già esaminati a fondo.
Andare oltre potrebbe essere problematico, perché la Corte esamina approfonditamente solo il 5-10% dei casi. Per il resto si è ben organizzati: il 90-95% dei casi vengono trattati in cancelleria.
swissinfo.ch: Che cosa ha portato la Corte dei diritti umani agli abitanti e agli stati d’Europa?
H. K.: Restiamo in Svizzera: il tribunale si è pronunciato a più riprese su questioni che riguardavano i diritti umani nel nostro paese. Per esempio per quanto riguarda il cognome delle donne dopo il matrimonio. La Svizzera è stata condannata due volte perché non dava alle donne le stesse possibilità di scelta garantite agli uomini. Queste sono sentenze molto importanti per il raggiungimento della parità di diritti.
Un altro esempio sono i diritti delle coppie omosessuali. In questo campo, la Corte europea ha emesso sentenze pionieristiche, che sono di grande importanza non solo per la Svizzera, ma per tutta l’Europa.
Ci sono poi le condizioni di carcerazione, un altro tema che è stato molto importante per la Svizzera e che ha avuto ricadutea livello europeo. Chi è in prigione può praticare la sua religione? Può ricevere posta? Può avere accesso ai media? Partendo da queste domande la Corte europea ha emesso sentenze importanti che hanno portato ad un miglioramento delle condizioni di carcerazione.
swissinfo.ch: In Svizzera c’è la democrazia diretta. Negli ultimi anni in seguito al risultato di diverse votazioni popolari ci si è chiesti: Il popolo ha sempre ragione? Lei come risponde?
H. K.: Dal punto di vista dei diritti umani e dal punto di vista del diritto costituzionale svizzero è chiaro che no, il popolo non ha sempre ragione.
Tutti gli organi statali – e come tale considero anche il sovrano, ovvero gli elettori e i cantoni – sono legati ai diritti fondamentali. Lo dice la costituzione. Non può accadere che il popolo, attraverso una semplice decisione di maggioranza, violi i diritti umani fondamentali.
A Strasburgo ci si confronta anche con questioni complicate come questa. Ci sono diversi ricorsi pendenti, in particolare per quanto riguarda il divieto di costruire minareti. Io non sono ancora in carica, ma la probabilità che in futuro mi debba occupare di questi ricorsi è abbastanza alta. Per questo, per mantenere la mia indipendenza, non mi pronuncio più in merito.
Helen Keller è nata nel 1964. Sposata, due figli, si è laureata in dirittoall’Università di Zurigo. In seguito si è specializzata al Collège d’Europe di Bruges (Belgio) e all’European Law Research della Harvard Law School (USA).
Dal 2002 al 2004 è stata professoressa all’Università di Lucerna. Dal 2004 è professoressa di diritto pubblico, diritto europeo e diritto pubblico internazionale all’Università di Zurigo.
2008: nomina a membro del Comitato ONU dei diritti umani.
2011: nomina a giudice della Corte europea dei diritti umani (Strasburgo).
È stata fondata nel 1959.
Ha sede a Strasburgo.
Giudica le presunte violazione della Convenzione europea dei diritti umani.
È l’ultima istanza per i più di 800 milioni di abitanti dei 47 paesi membri del Consiglio d’Europa.
Conta 47 giudici che rappresentano i 47 paesi membri.
Le lingue ufficiali di lavoro sono l’inglese e il francese. I ricorsi possono essere depositate nelle lingue nazionali dei paesi membri.
La Corte è oberata di lavoro; i casi pendenti sono più di 149’000.
Traduzione dal tedesco, Doris Lucini
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