“Diciamo agli altri ciò che pensiamo, ma a modo nostro”
Uomini di affari trattenuti all’estero, preti colti con un sacco pieno di cocaina, bambini rapiti: la Direzione consolare del Dipartimento degli affari esteri è incaricata di aiutare gli svizzeri all’estero in difficoltà. Il suo direttore Johannes Matyassis spiega a swissinfo.ch in che modo.
swissinfo: Tra giornalisti ci diciamo: se chiedi qualcosa a un diplomatico, non ti risponderà mai nulla. Ciò nonostante mi rallegro di poter parlare con lei.
Johannes Matyassy: Non sono un classico diplomatico di carriera. Sono già stato attivo anche a livello politico come parlamentare comunale, presidente cantonale e segretario generale di un partito. Questo mi aiuta a parlare chiaro.
E ha anche qualcosa da dire, quale responsabile della Direzione consolare del Dipartimento degli affari esteri (DFAE). Tra i suoi incarichi vi è quello di occuparsi degli svizzeri all’estero, quando si trovano in situazioni di emergenza.
J.M.: Sì, qui siamo responsabili della protezione consolare e gestiamo la Helpline del DFAE. Sosteniamo anche le rappresentanze svizzere all’estero, che svolgono tra l’altro attività paragonabili a quelle di un’amministrazione comunale, però al servizio degli svizzeri all’estero. Ad esempio, per questioni relative a matrimoni o divorzi, alla nascita di figli o a decessi. Oppure per coloro che hanno bisogno di un nuovo passaporto.
Per quanto riguarda le situazioni di emergenza: recentemente è venuto alla luce il caso di un uomo d’affari svizzero-libanese, bloccato in Arabia Saudita. Il DFAE ha annunciato che sarebbe intervenuto in ogni occasione. Cosa significa concretamente?
J.M.: In questi casi, l’ambasciatore sul posto cerca attivamente delle opportunità per esporre le nostre preoccupazioni e parlarne con le autorità competenti. Abbiamo discusso di questo caso anche durante la sua visita inaugurale del nuovo ambasciatore saudita in Svizzera. La sfida concreta è legata al fatto che un paese terzo ha condannato l’uomo d’affari e chiede la sua estradizione dall’Arabia Saudita. Riyadh respinge l’estradizione verso il paese terzo. Tuttavia, il suo passaporto rimane confiscato e non può lasciare il paese per il momento.
“Sottolineiamo la separazione dei poteri. Altri paesi non sempre lo capiscono”.
È molto più difficile trattare con un paese che ha una diversa concezione della giustizia?
J.M.: Questo aspetto, a volte, è davvero molto impegnativo. Per fornire assistenza dobbiamo attenerci alla legge sugli svizzeri all’estero: in particolare, deve essere rispettata la sovranità degli altri Stati e i loro sistemi giuridici. Per questo motivo non siamo autorizzati a intervenire in procedimenti giudiziari all’estero.
Noi stessi ci difendiamo ogni qual volta altri paesi cercano di interferire nei nostri procedimenti giudiziari. Sottolineiamo la separazione dei poteri. Altri paesi non sempre lo capiscono, soprattutto in quelli abituati a intervenire nel settore giudiziario. Per per quanto riguarda le aspettative nei nostri confronti: siamo e rimarremo uno Stato di diritto e non sempre possiamo fare ciò che ci si aspetta.
Dopo i rapimenti di cittadini svizzeri all’estero, tuttavia, ci si è chiesti a volte se la Svizzera…
J.M.: La Svizzera non paga mai un riscatto! È fuori discussione. Escluso. Punto.
Risposta breve. Domanda successiva: l’anno scorso la Turchia ha arrestato otto svizzeri con doppia cittadinanza. Sono stati compiuti sforzi simili?
Sì, attraverso vari canali. In questo caso, si è dovuto attendere il procedimento giudiziario. Dopo di che, sei di loro hanno lasciato legalmente il paese. Ma due vi si trovano ancora.
La Turchia non ha riconosciuto la cittadinanza svizzera di queste persone e le ha trattate come cittadini turchi. È giusto?
J.M.: Sì, si dimentica spesso che ogni paese decide da solo se vuole riconoscere o meno le cittadinanze multiple. Noi riconosciamo come svizzeri anche cittadini che hanno altre nazionalità. Non estradiamo mai uno svizzero.
Anche due bambini svizzeri, rapiti dal padre e trasportati in Egitto, hanno attirato l’attenzione. Recentemente sono tornati in Svizzera, ma la madre ha dovuto aspettare questo momento per quattro anni. Perché così a lungo?
J.M.: Abbiamo fornito protezione consolare dall’inizio del rapimento e siamo intervenuti al massimo livello. Tuttavia, abbiamo potuto aiutare i bambini a lasciare il paese solo dopo che l’ultimo tribunale egiziano ha finalmente concesso l’affidamento alla madre svizzera. In seguito a questa sentenza, la Svizzera è nuovamente intervenuta al massimo livello.
“L’intervento avviene a volte fino al livello del presidente della Confederazione”.
Quindi fino al livello del presidente dello Stato?
J.M.: Sì, in questi casi l’intervento avviene a volte fino al livello del presidente della Confederazione e dei membri del Consiglio federale. In concreto, ci sono state diverse telefonate tra i ministri degli esteri di entrambi i paesi. E al WEF di Davos il nostro governo ha colto l’occasione per rivolgersi al primo ministro egiziano.
È un grande sforzo da parte di uno Stato per due bambini. La madre lo ha saputo?
J.M.: Eravamo in stretto contatto con lei ad ogni passo che abbiamo compiuto.
Un’altra sfida: tre donne svizzere, che avrebbero fatto parte dello Stato islamico, sono trattenute nella regione di confine tra Siria e Iraq .
J.M.: Vi è una decisione del Consiglio federale dell’8 marzo 2019, in base alla quale la Svizzera non intraprende nulla per rimpatriare persone partite per motivi legati al terrorismo.
Questo vale per gli adulti.
J.M.: Per i minori giudichiamo il singolo caso. Siamo a conoscenza di diversi casi. Uno concerne una donna con tre figli di padri diversi. Qui abbiamo ricevuto il mandato delle autorità ginevrine di avviare il rimpatrio dei due bambini svizzeri più grandi. Hanno 7 e 13 anni e sono stati rapiti, secondo quanto dichiarato dai rispettivi padri.
Quindi la madre è una presunta rapitrice. Non è un reato punibile d’ufficio, che la Svizzera dovrebbe quindi perseguire di propria iniziativa?
J.M.: Per rapimenti è prevista la detenzione in Svizzera. Ma ci sono ancora molte domande a cui rispondere, e questo va fatto in modo discreto.
È noto anche il caso di una coppia di Losanna con un figlio. Anche in questo caso siamo in contatto con le autorità competenti. Abbiamo pochissime informazioni su altri casi.
In un discorso agli svizzeri all’estero, lei ha recentemente raccontato il caso di un sacerdote cattolico di 78 anni, arrestato a Hong Kong con 2,8 chili di cocaina.
J.M.: Un caso difficile da credere. Sono stato responsabile per molti anni della regione Asia e Pacifico. Si può solo compatire una persona che finisce in prigione in questi paesi a causa della droga. Hong Kong è un po’ un’eccezione. Il processo è ancora in corso, resta da vedere se il sacerdote riesce a cavarsela alla leggera.
I turisti si comportano in modo più rischioso rispetto agli svizzeri residenti all’estero?
J.M.: I turisti svizzeri sono spesso meno informati su come vanno le cose all’estero. Uno svizzero residente all’estero, che si trova in una situazione difficile in qualche parte del mondo, ha un vantaggio: sa che le cose vanno in modo diverso rispetto alla Svizzera. E, se si mette nei guai nel suo paese di residenza, sa come comportarsi. Chi vive all’estero, ha spesso dei legami e forse ha già un avvocato.
“A volte, coltivano un’immagine ideale della Svizzera che non corrisponde quasi più alla realtà”.
Nel corso della sua carriera ha avuto numerosi incontri con svizzeri all’estero. Come si contraddistinguono?
J.M.: Quello che mi ha colpito è che più vivono lontano – in termini di tempo e spazio – e più glorificano la Svizzera. L’ho sperimentato in Argentina, ma anche in Asia e nel Pacifico. A volte, coltivano un’immagine ideale della Svizzera che non corrisponde quasi più alla realtà.
Diamo uno sguardo al futuro: è prevista una nuova “strategia consolare” per la Svizzera. Cosa ci riserva?
J.M.: Concerne un ulteriore sviluppo dei servizi consolari. L’intelligenza artificiale e la digitalizzazione portano alle seguenti domande: cosa possiamo fare e cosa vogliamo? L’offerta di servizi per i cittadini è diventata più importante. Ma il classico sportello fisico esisterà ancora tra cinque o dieci anni? O tutto andrà online? Quali sono ancora le cose che vanno fatte personalmente? Ciò significa anche: di quali persone e di quale formazione abbiamo bisogno?
Domande tipicamente svizzere. In molte altre parti del mondo, le autorità costringono i loro cittadini ad avere pazienza, mentre in Svizzera ci si preoccupa per la qualità del servizio e l’efficienza.
J.M.: Questa è la nostra filosofia e anche del consigliere federale Ignazio Cassis. Così che la politica estera diventa politica interna.
In un rapporto, il Controllo federale delle finanze ha recentemente avanzato la possibilità di uno snellimento della rete di rappresentanze svizzere all’estero. In tal caso vi è da temere una riduzione dei servizi. Una contraddizione?
J.M.: Questo rapporto riguarda le rappresentazioni più piccole e non ha causato un terremoto al DFAE, ma ha confermato ciò che pensavamo. Dobbiamo esaminare come attuare le raccomandazioni del rapporto con approcci creativi, come delle soluzioni regionali.
A Mosca è stata però recentemente aperta l’ambasciata svizzera più costosa. Si tratta di un segnale giusto, se poi dall’altra parte si vogliono ridurre le rappresentazioni diplomatiche?
J.M.: Conoscendo le condizioni sul posto, era ovvio che a Mosca si doveva fare qualcosa di nuovo. Dobbiamo rappresentare il nostro paese. Ci si aspetta che la Svizzera lo faccia, non possiamo metterci un contenitore. Dopo tutto, la Russia è uno dei paesi più potenti del mondo. La Svizzera deve essere adeguatamente rappresentata. È in gioco anche la nostra credibilità.
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A Mosca è stata però recentemente aperta l’ambasciata svizzera più costosa. Si tratta di un segnale giusto, se poi dall’altra parte si vogliono ridurre le rappresentazioni diplomatiche?
J.M.: Conoscendo le condizioni sul posto, era ovvio che a Mosca si doveva fare qualcosa di nuovo. Dobbiamo rappresentare il nostro paese. Ci si aspetta che la Svizzera lo faccia, non possiamo metterci un contenitore. Dopo tutto, la Russia è uno dei paesi più potenti del mondo. La Svizzera deve essere adeguatamente rappresentata. È in gioco anche la nostra credibilità.
Infine, uno sguardo al mondo: lei si è occupato a lungo dell’Asia. Siamo sulla strada giusta con la Cina?
J.M.: Esprimo qui la mia opinione personale: dobbiamo continuare il rapporto pionieristico che abbiamo con la Cina con la cura necessaria e con una distanza critica. Sono sempre stato del parere che dobbiamo avere relazioni molto ampie con la Cina. In tal modo si possono affrontare tutte le questioni. I paesi che riducono le loro relazioni con la Cina ai diritti umani o alla sicurezza umana non trovano nessun ascolto.
Ero presente durante la visita di Stato di Xi Jinping nel 2017. Cinque consiglieri federali hanno parlato con il presidente cinese per 70 minuti, di cui 15-20 sulla questione dei diritti umani. E Xi Jinping è stato disposto a rispondere. Ha presentato la sua posizione, che non è la nostra, ma il Consiglio federale ha discusso la questione con lui in modo dettagliato e critico.
Il nostro approccio con la Cina è che è meglio essere presenti e aver voce in capitolo. Un esempio è l’iniziativa “Belt and Road” per una nuova Via della seta.
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In generale, la Svizzera sembra molto presente sulla scena internazionale. Giappone, Cina, USA, Russia: il primo semestre dell’anno è stato caratterizzato da numerosi incontri di alto livello. Abbiamo visto consiglieri federali e importanti capi di Stato di buon umore.
J.M.: Questo è uno dei punti di forza della diplomazia svizzera: parliamo con tutti e non facciamo politica da megafono. È una cosa molto apprezzata. Altri paesi rilasciano una dichiarazione o un messaggio Twitter ad ogni occasione. Anche noi diciamo agli altri ciò che pensiamo, ma in modo diverso. In modo svizzero.
Traduzione di Armando Mombelli
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