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L’Italia ancora senza ricette per i suoi mali economici

Per lo Stato italiano, la vendita delle partecipazioni all'Enel e alle altre imprese pubbliche o semi-pubbliche potrebbe generare introiti stimati a 400 - 600 miliardi di euro AFP

Colpa di Berlusconi o colpa di Monti? Mentre i leader politici si addossano le responsabilità della crisi, dalla campagna elettorale non è emerso alcun consenso per riforme in grado di rimettere in sesto l’economia. Intervista all'economista Giacomo Büchi dell'Università di Torino.

Anche in questa campagna elettorale, vertenze, polemiche e battibecchi hanno messo quasi in secondo piano i gravi problemi economici e sociali ai quali l’Italia è da tempo confrontata. La Penisola si è ritrovata nel 2011 sull’orlo del tracollo e ancora oggi la sua economia rimane vacillante e a rischio di nuovi attacchi sui mercati.

Una vulnerabilità dovuta a problemi strutturali, di vecchia data. Tra questi un debito pubblico che supera il 120% del prodotto interno lordo, il più alto in Europa dopo la Grecia. E poi una crescita economica anemica, la più bassa a livello europeo: 4,1% tra il 2001 e il 2010, contro una media del 14% per l’insieme dell’UE.

Università di Torino

swissinfo.ch: In quattro governi, Berlusconi non è riuscito ad apportare grandi impulsi e a varare riforme importanti in campo economico. Come valuta le sue nuove promesse elettorali?

Giacomo Büchi: Non si intravedono vere riforme strutturali. Le principali proposte, rilanciate da Berlusconi anche in questa campagna elettorale, concernono tagli delle imposte. Misure sul modello “reaganiano” che dovrebbe servire a rilanciare l’economia, ma che presentate da sole denotano intenti elettorali e non riflettono un disegno strutturale. Si possono ridurre le imposte se vi sono anche altre misure destinate a eliminare gli sprechi e a ridurre la spesa pubblica in modo selettivo.

Nel 2011 Monti era arrivato come un salvatore, ma da allora si è giocato molta credibilità in Italia. Come giudica le sue scelte economiche?

Monti è riuscito a far fronte ad una situazione di emergenza, ma ha lasciato dietro di sé interventi piuttosto parziali. Ha raschiato ancora qualcosa a livello di aumento delle imposte. Ad esempio, ha colpito con qualche imposta in più coloro che avevano accettato di dichiarare i loro averi nell’ambito dello scudo fiscale in Svizzera e ai quali si era stata promessa l’amnistia dopo aver pagato lo scudo.

Monti ha compiuto qualche timido passo anche per quanto riguarda il mercato del lavoro, senza però giungere ad una maggiore liberalizzazione per le imprese e raccogliendo per finire critiche sia dai sindacati che dalle organizzazioni imprenditoriali. Ed è intervenuto in modo molto parziale anche per quanto concerne il contenimento della spesa.

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In vista delle elezioni, i responsabili degli ultimi governi si accusano reciprocamente di aver messo l’Italia in crisi. Molti problemi economici si trascinano però di governo in governo, già da molto tempo.

Sì, vi sono innanzitutto due problemi che affliggono un po’ tutti i paesi europei, ma che in Italia sono ingigantiti. Il primo deriva in buona parte dal fatto che, nel contesto  della globalizzazione, la struttura economica italiana ha un peso forte di aziende piccole e medie, ossia imprese che hanno minori capacità di muoversi su un piano internazionale. Inoltre pesano molto, rispetto ad altri paesi avanzati, settori con un livello tecnologico piuttosto basso, che soffrono quindi maggiormente della concorrenza dei paesi emergenti.

L’altro problema è legato alla crisi finanziaria degli ultimi anni, che ha pure toccato gli altri paesi europei, ma non tutti nella stessa misura. L’Italia ha pagato il fatto di portarsi appresso da lungo tempo un pesante indebitamento, che supera il reddito nazionale. L’arrivo della crisi finanziaria ha aggravato questo problema, dal momento che i mercati scontano i differenti livelli di indebitamento, pur in presenza di una politica monetaria unica.

In che misura l’euro ha penalizzato in quest’ultimo decennio l’economia italiana?

L’euro ha sicuramente impedito all’Italia di continuare far ricorso ad una medicina che curava perlomeno i sintomi: ossia svalutare continuamente la propria valuta, come ha fatto con la lira, per rendere competitiva la sua economia. Ora, con cambi fissi all’interno dell’euro, questa competitività può essere raggiunta solo con bassi salari o un aumento della produttività. Non possiamo però sapere se le cose sarebbero andate meglio senza l’euro. Probabilmente i tassi d’interesse sarebbero stati più alti e quindi la competitività sarebbe stata minacciata in altro modo.

Per la Svizzera, l’Italia è il secondo principale fornitore di beni e servizi (19 miliardi nel 2011) e il terzo mercato d’esportazione (16 miliardi nel 2011).

Gli investimenti italiani nella Confederazione, a cui sono legati quasi 14’000 posti di lavoro, hanno raggiunto 5 miliardi di franchi a fine 2010. Tra le maggiori imprese italiane attive in Svizzera vi sono Generali, Fiat, Pirelli e Bulgari.

La Confederazione figura invece al sesto rango tra i partner economici dell’Italia per quanto riguarda le esportazioni e al nono tenendo conto delle importazioni.

Gli investimenti svizzeri in Italia corrispondevano a 20 miliardi di franchi nel 2010. Le imprese elvetiche – tra cui ABB, Nestlé, Novartis, Roche, Zurich, UBS, CS e Swisscom – danno lavoro a circa 76’000 persone nella Penisola.

Inoltre, circa 55’000 cittadini italiani attraversano i ogni giorno la frontiera per lavorare sul territorio elvetico.

Nell’ambito di quest’ultima crisi, l’Italia è stata messa spesso addirittura sullo stesso piano della Grecia. Eppure la Penisola dispone di una forte sostanza economica e di numerose imprese innovative.

Sì, un po’ a macchia di leopardo, ma vi sono diversi poli innovativi e si sta cercando, anche attorno alle università, di favorire lo sviluppo di nuove tecnologie. L’Italia dispone inoltre di un settore bancario che si è rivelato alquanto solido durante la crisi finanziaria, a tal punto che ha dovuto ricorrere meno che in altri paesi ad aiuti statali. Inoltre l’Italia può sempre contare su un risparmio elevato da parte delle famiglie.

Di fronte alla crisi attuale quali dovrebbero essere le riforme più urgenti per il nuovo governo?

Tra le riforme più urgenti vi è sicuramente la riduzione del settore pubblico e della burocrazia. A tale scopo occorre però un’accurata conoscenza della pubblica amministrazione per sapere dove razionalizzare. E bisogna anche operare su un ricambio a medio o lungo termine, ossia in tempi che la politica del breve termine non predilige.

L’altra grande riforma concerne le dismissioni – ossia la vendita di patrimonio immobiliare e di partecipazioni a aziende pubbliche – che rappresentano l’unica strada per ottenere rapidamente un abbassamento del debito e degli interessi. Pensiamo, ad esempio, che solo il patrimonio immobiliare è stimato a 400 – 500 miliardi di euro. Sia a livello nazionale che nelle regioni, ogni tentativo in questa direzione si scontra però con le resistenze della burocrazia pubblica, dal momento che patrimonio immobiliare e aziende pubbliche vogliono dire tra l’altro potere e posti di lavoro.

Nato nel 1959 a Torino, di origine e nazionalità svizzera, Giacomo Büchi si è laureato in economia a Torino e ha conseguito il Master of Science a Oxford e il Dottorato a Padova..

È attualmente professore ordinario di economia e management all’Università di Torino, ed è membro del Consiglio di amministrazione della stessa Università. È dottore commercialista e revisore ufficiale dei conti.

Giacomo Büchi è inoltre console onorario di Svizzera a Torino.

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