La dura vita dei profughi in Libano
Traumatizzati dagli orrori della guerra, migliaia di siriani continuano a riversarsi in Libano nonostante le difficoltà di sopravvivenza nel piccolo paese mediterraneo, grande un quarto della Svizzera e con quattro milioni di abitanti.
«Sono dovuta fuggire con le nostre due figlie e lasciare a casa mio marito. Partorirò in meno di un mese. Non so come farò a cavarmela da sola», dice Narwal* sospirando.
Con lo sguardo perso nel vuoto, la 22enne di Homs, in avanzato stato di gravidanza, siede su una sedia bianca di plastica nella tenda di fortuna che divide con un’altra famiglia di profughi.
«Ero a casa con i bambini quand’è cominciato un pesante bombardamento. Non sapevo che fare, così ho chiamato mio marito, che stava lavorando. Ci ha detto di andarcene subito e che ci avrebbe raggiunto presto», dice.
Dieci giorni fa un tassista ha portato lei e i bambini nell’accampamento alla periferia di Bar Elias, nella valle della Bekaa, nel Libano meridionale. Con sé ha portato poco più dei vestiti che aveva indosso.
Ha passato il confine legalmente, il trasporto le è costato 12’000 lire siriane, circa 160 franchi svizzeri. Un uomo le ha promesso di aiutare suo marito a passare il confine illegalmente, in cambio di 2000 dollari. Ma poi non si è più fatto vivo.
Gli accampamenti non sono un fenomeno nuovo nella valle della Bekaa. C’erano già prima della crisi, disseminati in tutta la regione. Appartenevano a migranti siriani che venivano a lavorare nei campi o a raccogliere la frutta e a vendemmiare. Dopo il 2011, migliaia di migranti sono rimasti e hanno fatto venire le loro famiglie.
Tende come funghi
Oggi le 600-800 nuove famiglie di profughi che ogni settimana arrivano nella regione sono confrontate con possibilità di alloggio limitate e costose. Anche chi è arrivato prima non riesce spesso più a pagare l’affitto di una casa. Per questo gli accampamenti improvvisati crescono come funghi. Ormai sono 230 e danno alloggio al 20% dei rifugiati che vivono ufficialmente nella valle della Bekaa.
Le tendopoli stanno crescendo così in fretta che gli enti assistenziali fanno fatica a tenere il passo. Molti rappresentanti delle organizzazioni che assistono i rifugiati sono preoccupati per le strutture ammassate, costruite su terreno agricolo senza drenaggio e con poche latrine e docce.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e i suoi partner forniscono legname e fogli di plastica per costruire gli alloggi di fortuna, offrono aiuti in denaro ai più poveri, realizzano impianti igienici e per l’acqua potabile, gestiscono una clinica mobile. Ma la vita in Libano per i siriani rimane costosa. I proprietari dei terreni chiedono fino a 160 dollari al mese per ogni tenda in cui a volte si ammassano tre famiglie. E per molti rifugiati è difficile, se non impossibile, trovare lavoro.
«La gente qui lavora in media 10 giorni al mese», dice Sokol*, che vive nell’accampamento di Bar Elias con altre 60 famiglie. «I vicini ci chiedono di pulire o di riparare qualcosa e ci danno in cambio qualche soldo. È dura sopravvivere qui. Non consiglierei a familiari o amici di venire adesso».
Altri sviluppi
Sospesi nel deserto della Giordania
Sopravvivenza urbana
Nella città di Tripoli, nel Libano settentrionale, la vita costa la metà rispetto alla capitale Beirut. Ma per gli oltre 140’000 rifugiati che lottano per mettere insieme il pranzo con la cena è comunque troppo cara.
«Non siamo abituati all’alto costo della vita. Le cose sono particolarmente difficili perché qui non c’è lavoro», spiega Hanaa*, fuggita sette mesi fa da Aleppo insieme al marito e ai sei figli. «Gli unici aiuti li riceviamo dall’ONU, non c’è altro».
La famiglia di Hanaa vive in un appartamento all’interno di un alloggio collettivo al terzo e quarto piano di un edificio abbandonato al centro della città, ristrutturato dall’UNHCR ed equipaggiato con l’essenziale, fornello, lavandino e frigorifero, che Hanaa e i suoi condividono con altre famiglie.
«Quasi tutti i risparmi li abbiamo consumati in Siria, perché mio marito non aveva lavoro. Quando siamo arrivati qui non avevamo quasi più niente», dice la donna. «Il mio figlio maggiore è disabile. È andato a farsi un giro. Non riesce a stare in casa ed è frustrato, sente di non aver più uno scopo».
Ospitalità libanese
Se il numero di accampamenti e di alloggi collettivi è in crescita, la maggioranza dei rifugiati sta da amici e parenti o è ospite di famiglie libanesi.
Mohammed, 31 anni, e la sua giovane famiglia vengono dall’area rurale di Damasco. Sono fuggiti un mese fa dai bombardamenti raggiungendo Al-Rafid, nella parte sud-orientale della valle della Bekaa. Lì una sera hanno avuto la fortuna di incontrare Salim Charefiddin.
«Stavo guidando e improvvisamente li ho visti che stavano aspettando al lato della strada con le loro valigie», dice Salim, un libanese con la doppia nazionalità canadese. «Mi hanno detto che stavano cercando un posto dove vivere. Ho detto loro che non sarebbe stato facile, visto il gran numero di rifugiati, ma che avrei potuto ospitarli a casa mia finché non avessero trovato qualcosa».
Il 72enne taxista e la sua famiglia vivono in una camera, Mohammad, sua moglie e suo figlio nell’altra. Condividono bagno e cucina, cosa che comincia a diventare difficile per entrambe le famiglie, ammette Salim. L’uomo sta anche aiutando il suo ospite a trovare lavoro come meccanico.
«Ho incontrato alcune persone che hanno promesso di aiutarmi. Sto ancora attendendo una risposta, ma sono fiducioso», dice Mohammad. «Non è facile. Anche i libanesi sono confrontati con problemi a causa del gran numero di profughi siriani. Sta diventando un fardello anche per loro».
Le prime crepe
Nonostante l’alto numero di arrivi dalla Siria – ormai i rifugiati sono il 10% della popolazione – i responsabili degli enti assistenziali sottolineano la «rimarchevole» ospitalità dei libanesi verso i siriani. L’afflusso continuo sta però creando qualche malcontento nella popolazione locale, soprattutto fra i più poveri, e le prime crepe cominciano ad apparire.
Fra la gente si sentono lamentele per l’aumento degli affitti, per la sovrappopolazione, per la concorrenza sleale, per i rifugiati che accettano salari più bassi e si allacciano illegalmente alla rete elettrica, per la criminalità. Lo scorso mese ci sono state piccole proteste nel nord a causa della presenza siriana.
Le municipalità che hanno dato ospitalità un gran numero di rifugiati sono confrontate con un dilemma, perché da una parte non vogliono far vedere di essere troppo disponibili ad accogliere altri rifugiati, dall’altro continuano ad aiutarli con generosità.
La questione è delicata perché il Libano ha vissuto una guerra civile tra 1975 e 1990, durante la quale la presenza di profughi palestinesi è stata un fattore di divisione. Il paese è confrontato con tensioni e scontri tra sostenitori e avversari del presidente siriano Bashar al-Assad.
La grande maggioranza dei rifugiati è sunnita. C’è il timore che il precario equilibrio libanese tra cristiani, sunniti e sciiti possa essere messo in crisi dai combattimenti in Siria e dalle possibili ripercussioni locali.
Il paese non è pronto ad affrontare una simile crisi, afferma Ninette Kelley, capo delle operazioni dell’UNHCR in Libano. «Stiamo di fronte a una crisi di dimensioni inedite per il Libano. Il paese ha urgente bisogno di un sostegno maggiore da parte della comunità internazionale, non solo per rispondere ai bisogni di profughi, ma anche per garantire la stabilità del paese».
*nomi noti alla redazione
Secondo le Nazioni Unite, in Siria su una popolazione di 23 milioni di abitanti i rifugiati interni sono 4,25 milioni. Quasi 7 milioni di persone, la metà delle quali bambini, necessitano di aiuto umanitario urgente. I siriani costretti dalle violenze a lasciare le loro case devono spesso spostarsi a più riprese e sono concentrati attorno ad Aleppo e nella campagna di Damasco.
Le organizzazioni di soccorso incontrano molte difficoltà a raggiungere le famiglie bisognose, a causa dei visti concessi per soli due mesi, dell’obbligo di annunciarsi ogni tre giorni per tutti i convogli di aiuti e di altri ostacoli burocratici, di dozzine di blocchi stradali e della riduzione delle ONG autorizzate da 110 a 29.
Dall’inizio dell’anno il numero di persone che lascia la Siria è cresciuto enormemente. Si stima che 1,5 milioni di persone abbiano già lasciato il paese alla volta della Giordania (473’587 persone nel maggio 2013), del Libano (470’457), della Turchia (347’157), dell’Iraq (147’464) e dell’Egitto (66’922).
Secondo Kristalina Georgieva, commissario dell’Unione europea per l’aiuto umanitario, «se tutti coloro che sono coinvolti nel conflitto e la comunità internazionale non trovano una soluzione politica per mettere fine alle violenze, presto l’aiuto umanitario internazionale non sarà più in grado di rispondere alle esigenze di dimensioni mai viste. Siamo già al limite».
Circa 80’000 persone sono rimaste uccise in Siria nei combattimenti sempre più accaniti tra ribelli armati e forze governative.
(Traduzione dall’inglese, Andrea Tognina)
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