«La sofferenza dei palestinesi si chiama occupazione!»
La tregua avviata martedì da israeliani e palestinesi potrebbe riportare una certa calma a Gaza e lasciar riprendere l’opera di ricostruzione. Un lavoro di Sisifo, a cui partecipa anche la Svizzera, continuamente compromesso da nuove violenze. Testimonianze.
«In sei anni ho vissuto diversi attacchi, ma questo è il peggiore. È massiccio, prolungato e vizioso, con donne e bambini come bersagli», denuncia Maha Banna, una giornalista che vive a Gaza. Oltre a citare le interruzioni della distribuzione di acqua e la mancanza di cibo e medicamenti, Maha Banna rammenta che la popolazione ha dovuto affrontare quotidianamente il fuoco dell’artiglieria e i bombardamenti aerei. Attacchi che hanno provocato la morte di oltre 1850 persone, soprattutto civili.
Tentativo di tregua
Dopo 28 giorni di guerra, israeliani e palestinesi hanno dato inizio martedì mattina ad una tregua di 72 ore. Il cessate il fuoco, giunto nel quadro di una mediazione da parte egiziana, dovrebbe permettere di negoziare un’intesa più solida e duratura.
Martedì l’esercito israeliano (Tsahal) ha inoltre annunciato che, in corrispondenza della tregua, ritirerà tutte le sue forze di terra dalla Striscia di Gaza.
Questi primi passi dovrebbero ora portare a dei veri e propri negoziati, una strada abbandonata la scorsa settimana dal governo di Benyamin Netanyahu.
Secondo fonti di soccorso locali, il conflitto è costato la vita a 1’850 palestinesi, soprattutto civili. Da parte israeliana, 64 soldati e 3 civili sono rimasti uccisi.
Israele ha accusato Hamas di utilizzare la popolazione civile come scudo umano, collocando le sue rampe di lancio missilistiche in mezzo alle zone abitate. Abner Gidron, consulente politico di Amnesty International a Londra, ha affermato sulla BBC che non esistono prove a sufficienza relative al ricorso a scudi umani da parte di Hamas. Tuttavia, ritiene che ci siano abbastanza informazioni per prendere questo problema sul serio.
Sorpresi di essere vivi
Abner Gidron sostiene comunque che Israele non può, né moralmente né legalmente, ignorare che ci sono dei civili nelle zone bombardate. «Una grave violazione del diritto umanitario internazionale non permette all’altra parte di commettere un’altra grave violazione di questo diritto», ha detto alla BBC.
«Molte persone arrivano in ospedale in uno stato di choc. Sono sorpresi di essere ancora vivi. Fanno fatica a crederci», racconta il dottor Yasser Abu Jamei, direttore del Programma comunitario di salute mentale di GazaCollegamento esterno, un’organizzazione attiva nella salute e nei diritti umani sostenuta dall’agenzia svizzera per l’aiuto allo sviluppo (Direzione per lo sviluppo e la cooperazione).
Il 21 luglio scorso, Yasser Abu Jamei ha perso 28 membri della sua famiglia. Una granata è caduta sulla casa in cui si erano ritrovati per la cena, dopo una giornata di digiuno per il Ramadan. Malgrado questa sofferenza, il medico riesce ancora ad aiutare gli altri. «Non è facile», riconosce. «Dobbiamo però superare questa situazione per preservare la nostra salute mentale. Inoltre è molto importante fornire aiuto in queste ore difficili».
Danni “collaterali”
«Ho visto immagini terribili», dice Maha Banna. «Conosco molti casi di persone che sono state uccise nella loro casa, come quella donna incinta che si trovava nel suo appartamento con i figli e la suocera. Non facevano nulla di male. Non erano in strada e non facevano resistenza. Erano dei civili a casa loro».
La giornalista è a Gaza con le sue due piccole bambine, suo padre, sua sorella, suo fratello e la famiglia di quest’ultimo. «È il caso per molte persone. Ogni famiglia vive con due o tre persone in più che sono state costrette a fuggire», spiega.
«Le bambine si annoiano e hanno paura. È il periodo delle vacanze e vorrebbero andare al mare», prosegue, rammentando il caso di quattro minori colpiti dai bombardamenti mentre giocavano sulla spiaggia. Secondo Maha Banna, è sbagliato affermare che gli attacchi colpiscono la popolazione civile «per sbaglio».
Jaber Wishah, direttore del Centro palestinese per i diritti umaniCollegamento esterno, è dello stesso avviso. «Con la tecnologia di cui dispone, Israele non può mancare i suoi bersagli».
Sfida umanitaria
«Le ferite sulle vittime dimostrano l’impiego di nuove armi che distruggono completamente i tessuti interni. Per i medici locali è difficile curare questo tipo di lesioni», osservano il sociologo Abu Akram e il dottor Aed Yaghi, direttori della Società palestinese di assistenza medicaCollegamento esterno, partner di Medico International Svizzera.
I nostri interlocutori descrivono anche l’angoscia delle famiglie nel momento in cui gli israeliani le avvertono di un attacco imminente. «La confusione è totale. La gente corre senza sapere dove andare. Molti scappano. Altri trovano riparo nelle case, nelle scuole trasformate in rifugi dall’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi e persino negli ospedali», afferma Jaber Wishah.
«Una donna ha partorito in uno di questi rifugi in mezzo a una cinquantina di persone. Non c’è altra scelta. La gente non sa dove andare e finisce nelle scuole. Non c’è vita privata e le installazioni sanitarie sono insufficienti», sottolinea.
Uno scandalo gigantesco
«È un inferno», riassume Abu Akram. «Non abbiamo né medicamenti né materiale medico. Abbiamo bisogno di ogni cosa, ma innanzitutto della protezione internazionale contro l’aggressione continua di Israele nei confronti di innocenti».
I (rari) momenti di tregua permettono di constatare i danni. «Il cessate il fuoco del 26 luglio ha rivelato l’ampiezza delle distruzioni a Shejaiya, nella periferia di Gaza. Le case sono state rase al suolo e mentre avanzavamo siamo stati invasi da un odore di morte. Sotto le macerie c’erano ancora dei cadaveri», racconta Aed Yaghi.
«Il mondo guarda ciò che accade senza porvi fine. È uno scandalo gugantesco», s’indigna Abu Akram. «È ora che la comunità internazionale agisca e che la Svizzera, depositaria delle Convenzioni di Ginevra, convochi una conferenza internazionale sui diritti umani», aggiunge Jaber Wishah.
La parola chiave della sofferenza dei palestinesi, prosegue, «è occupazione. È il nome della nostra sofferenza. La comunità internazionale deve fare pressione su Israele affinché cessi questa occupazione, la più lunga della storia e, spero, l’ultima…».
La Svizzera chiede un cessate il fuoco
Berna ha chiesto alle parti in conflitto di applicare con urgenza un cessate il fuoco «effettivo» per proteggere la popolazione civile nel Territorio palestinese occupato e in Israele e per fornire assistenza alle numerose vittime a Gaza.
Condannando nuovamente «tutti gli atti che violano il diritto internazionale, a prescindere dai loro autori», il governo svizzero ha ribadito in un comunicato del 30 luglio 2014 il suo sostegno agli sforzi internazionali e la sua disponibilità a trovare una soluzione politica del conflitto.
In quanto Stato depositario, la Svizzera ha avviato le consultazioni presso i paesi aderenti alle Convenzioni di Ginevra, in seguito alla richiesta ufficiale palestinese di convocare una conferenza entro la fine dell’anno.
Dal 1950, la Svizzera s’impegna in favore dei rifugiati palestinesi in medio Oriente, principalmente tramite le agenzie dell’ONU. La Direzione dello sviluppo e della cooperazione sostiene poi diversi progetti di sviluppo nei Territori palestinesi e a Gaza dal 1994.
Traduzione di Luigi Jorio
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