La Svizzera ha trovato solo una “goccia nel mare”
La Svizzera ha sequestrato 60 milioni di dollari nell'indagine sul clan Ben Alì-Trabelsi. Troppo poco per l'avvocato della Tunisia, il quale ammette però che la Svizzera ha fatto più di altri paesi, Francia e Canada in testa, a caccia di centinaia di milioni presumibilmente sottratti dal regime deposto.
Akram Azoury ha detto di recente alla Radio televisione svizzera (RTS): “Il presidente Ben Alì nega di possedere beni mobili, finanziari o immobiliari al di fuori della Tunisia, in particolare in Svizzera. Non ha nulla – né direttamente, né indirettamente e neppure tramite interposte persone– in Svizzera e nel resto del mondo”, dice colui che si presenta come l’avvocato di Zine al Abidine Ben Alì. Un’asserzione confermata dal Ministero svizzero degli affari esteri (DFAE).
“Alla luce degli sviluppi della pratica, il DFAE è ora in grado di comunicare che, a tutt’oggi, la somma di 60 milioni dollari non include averi di Zine al Abidine Ben Alì stesso”.
Da parte sua, il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) relativizza la portata dell’informazione. Questa “è nota fin dall’inizio delle indagini. Come abbiamo più volte comunicato, i beni bloccati riguardano la cerchia privata e professionale del clan Ben Alì”, spiega la sostituta procuratrice generale Maria-Antonella Bino.
Uomini di paglia
Enrico Monfrini, l’avvocato ginevrino assunto dalla Tunisia, rammenta una costante nella storia della corruzione: “È facile dire che Ben Alì non ha conti bancari in Svizzera. Non se ne sa nulla. La strategia è proprio di affidare a persone e società meno sospette il denaro sottratto da un capo di Stato”.
Il legale rincara: “Se l’avvocato di Ben Alì viene in Svizzera a rilasciare queste dichiarazioni, è perché c’è praticamente solo la Svizzera che dà l’impressione di essere molto attiva in questo dossier. È un tentativo di destabilizzazione riguardo a questo magro importo (60 milioni), una goccia nel mare dei beni della famiglia di Ben Alì”.
Un totale che, tuttavia, non è destinato a crescere entro la fine dell’inchiesta, secondo l’MPC. “La somma di circa 60 milioni di dollari inizialmente comunicata non è cambiata. Nel caso della Tunisia, l’inchiesta è durata più di un anno e mezzo. Nello stato attuale della pratica e delle nostre conoscenze, sembra improbabile che si possano scoprire altri beni in Svizzera presumibilmente rubati allo stato tunisino”, dice Maria-Antonella Bino.
“Questa somma è una prova di fallimento. Non progrediamo, mentre potremmo andare molto velocemente”, replica il rappresentante legale della Tunisia, che sostiene di avere un elenco di circa 300 nomi di persone e società suscettibili di nascondere beni del clan di Ben Alì Trabelsi. La lista stilata dal governo federale, invece, contiene 48 nomi e solo una striminzita decina di persone sono sotto inchiesta, osserva Enrico Monfrini.
Berna e Tunisi collaborano
“Monfrini in qualità di avvocato rappresenta gli interessi della Repubblica tunisina. Questa è parte querelante nel procedimento penale in Svizzera e ha un interesse legittimo che sia fatta al più presto luce sull’origine dei beni bloccati in Svizzera. Il compito dell’MPC è di eseguire le indagini, nel rispetto della legge e dei diritti di tutte le parti. Considero che, data la complessità dell’inchiesta, avanziamo in modo molto soddisfacente”.
La magistrata aggiunge: “Le autorità giudiziarie tunisine cooperano pienamente nell’ambito delle nostre indagini. Le rogatorie sono in fase di esecuzione da entrambe le parti. Ma, come in ogni procedimento giudiziario, le persone interessate hanno diritto di ricorso e in genere lo esercitano”.
Spiegazioni sulle quali Enrico Monfrini ironizza. “Se tutto funziona così bene, perché siamo a un punto morto fin dall’inizio? Si continua a compilare un incarto, ma non si arriva all’obiettivo”.
Inversione dell’onere della prova
Per l’avvocato della Tunisia, l’MPC dovrebbe basarsi maggiormente sul concetto di “organizzazione criminale”, che permette di invertire l’onere della prova. Ciò consentirebbe di notificare alle parti coinvolte delle scadenze per giustificare l’origine dei loro fondi. In caso contrario, sarebbero restituiti alla Tunisia. “I mezzi ci sono, ma nessuno ha il coraggio di metterli in moto”, dice il legale.
Secondo Enrico Monfrini, le pressioni internazionali sul sistema fiscale svizzero spiegano probabilmente l’atteggiamento della giustizia elvetica. “Dato che la Svizzera si è piegata in materia fiscale, come contraccolpo c’è una specie di nuova soggezione a livello giudiziario di fronte alle richieste di assistenza penale”.
L’MPC risponde pan per focaccia, assicurando di far prova di diligenza. “Non appena il Tribunale penale federale, il 20 marzo 2012, ha emesso la decisione [sul riconoscimento della Tunisia come parte querelante], l’avvocato Monfrini ha avuto accesso senza indugio al fascicolo penale. E le posso dire che non era insoddisfatto del contenuto e dello stadio di avanzamento delle indagini”, osserva Maria-Antonella Bino.
Certo, ribatte l’avvocato. “Il tribunale ha deciso che la Tunisia avrebbe avuto accesso al fascicolo, ma non avrebbe avuto il diritto di fare delle copie degli atti. Cosicché possiamo consultarlo, ma dobbiamo copiare a mano le parti interessanti. Ma ci sono già decine di migliaia di documenti. Ciò paralizza la nostra azione”.
Tracce interessanti
Ad ogni modo, la Svizzera è il paese che ha compiuto più passi in avanti in questo caso ammette Enrico Monfrini, che è munito di un mandato internazionale per recuperare i fondi di cui si è indebitamente appropriato il clan di Ben Alì.
“In Francia, dove un numero significativo di beni appartenenti al clan di Ben Alì Trabelsi e dei loro servitori, un ottimo giudice istruttore, Roger Le Loire, deve trattare da solo le pratiche tunisine, libiche ed egiziane. La mancanza di risorse umane è flagrante. Vedrò cosa si può fare affinché ottenga più risorse. Ho una lista enorme di edifici, alberghi, ristoranti, appartamenti, terreni, appartenenti a uomini di paglia di Ben Alì e consorte. Mi auguro che il nuovo governo francese prenda le cose in mano”.
“In Canada, è ancora più catastrofico. Dall’inizio di questo caso, non sono ancora riuscito a individuare l’ufficiale di polizia incaricato del caso. Tutto quello che so è che la Tunisia ha trasmesso al Canada un mandato di arresto internazionale per Belhassen Trabelsi, uno dei principali operatori del clan. Ma non è ancora successo un bel nulla”.
Enrico Monfrini segue anche altre piste. “Cominciamo a risalire a indizi interessanti nel principato di Monaco, in Belgio e in altri paesi. Le somme trovate in Svizzera potrebbero forse essere esigue, diversamente da quelle nascoste in altri paesi. In effetti, stiamo scovando altri averi”.
Tunisia: il 19 gennaio 2011, meno di una settimana dopo il rovesciamento del governo tunisino, la Svizzera blocca i fondi legati all’ex presidente Zine al-Abidine Ben Ali e ad una quarantina di persone della sua cerchia. 60 milioni di dollari depositati da persone del clan di Ben Ali sono attualmente bloccati su conti bancari svizzeri.
Egitto: l’11 febbraio 2011, la Svizzera blocca i beni di Hosni Mubarak e dei membri del suo entourage. Ai 410 milioni di dollari bloccati da tale data si sono nel frattempo aggiunti 290 milioni appartenenti ad altri membri o parenti del deposto regime.
Libia: il 24 febbraio 2011, il governo federale blocca quasi 650 milioni di franchi depositati in banche in Svizzera da Muammar Gheddafi e il suo clan. Attualmente è ancora bloccato solo un centinaio di milioni di franchi, mentre il resto è stato restituito alla Libia nell’ambito di una risoluzione dell’ONU.
Siria: il 18 maggio 2011, in seguito alla sanguinosa repressione da parte del regime di Bashar al-Assad, il governo federale si allinea alle sanzioni imposte dall’Unione europea. Circa 70 milioni di franchi sono bloccati su conti bancari in Svizzera. La “lista nera” comprende dal giugno 2012 più di 120 persone e 40 aziende ed entità legate al presidente siriano.
Storia ancor più recente, il 19 settembre 2012 la Svizzera conferma di aver bloccato in agosto diverse centinaia di milioni di franchi su conti intestati a quattro cittadini dell’Uzbekistan, sospettati di riciclaggio di denaro. Secondo la Radio televisione svizzera RTS, al centro dell’inchiesta penale vi sarebbero parenti del presidente uzbeko Islam Karimov.
(Traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)
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