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Discendenti di nazisti e deportati uniti contro l’odio

Un uomo in piedi nell ex campo di concentramento di Neuengamme.
Il luogo in cui sorgevano le baracche dei prigionieri (fra cui il belga Herve van Welle, nella foto scattata nel 2005) nel campo di concentramento di Neuengamme, nella Germania settentrionale. È qui che si sono incontrati, nel 2014, i quattro discendenti di nazisti e di vittime, venuti a testimoniare in Svizzera. Keystone

Quattro discendenti di nazisti e di deportati hanno messo in guardia le giovani generazioni contro le sirene dell'odio, della paura e della tensione, in due incontri con liceali a Losanna e Friburgo. Un'iniziativa dell'organizzazione per la lotta all'antisemitismo CICAD, in vista della Giornata internazionale dedicata alla memoria delle vittime della Shoah, che si celebra il 27 gennaio.

Preparati per questo intenso incontro, i numerosi liceali giunti nella fresca mattina nell’aula magna del Palais de RumineCollegamento esterno a Losanna, ascoltano assorti i portatori di ricordi insoliti. Figli e figlie di criminali nazisti o di combattenti della resistenza deportati sono lì per testimoniare insieme la loro esperienza della catastrofe nazista e per combattere le attuali reminiscenze di ciò che può condurre ad essa.

Un messaggio di grande valenza in un periodo in cui i testimoni diretti del tentativo di sterminare gli ebrei d’Europa stanno gradualmente scomparendo, mentre i gruppi di estrema destra si manifestano sempre più apertamente e stigmatizzano di nuovo gli ebrei e altri capri espiatori. Questo anche se il contesto è molto diverso da quello dell’Europa di un secolo fa, distrutta e traumatizzata dalla Grande Guerra.

La memoria e la storia

Il risveglio delle coscienze è quindi più che mai attuale, secondo il Coordinamento intercomunitario contro l’antisemitismo e la diffamazione (CICADCollegamento esterno), che organizza questi incontri e che dal 1991 è attivo nella Svizzera francese. Poiché gli ultimi sopravvissuti dell’Olocausto presto scompariranno, l’associazione conta sulla seconda generazione per trasmettere “la memoria di coloro che furono sterminati a milioni”.

L’associazione con sede a Ginevra compie questo passo con un partenariato fuori dagli schemi, riunendo discendenti delle vittime e dei carnefici. Un sodalizio formatosi nel 2014 presso il memoriale del campo di concentramento di Neuengamme, vicino ad Amburgo. È lì che Ulrich Gantz, figlio di un membro della polizia del Terzo Reich e delle Einsatzgruppen, Barbara Brix, figlia di un medico delle Einsatzgruppen, Yvonne Cossu, figlia di un capo della resistenza deportato, e Jean-Michel Gaussot, anch’egli figlio di un combattente della resistenza morto durante la deportazione, hanno iniziato il loro dialogo e il loro impegno comune.

Fianco a fianco, a Losanna e a Friburgo, raccontano le loro storie ai liceali. Con il timore che una tale tragedia si ripeta in un modo o nell’altro, si interrogano a vicenda sulla spirale che ha portato milioni di persone ad accettare e a seguire il regime nazista e milioni di altre persone a perire sotto di esso.

La forza dell’incontro è di porsi al livello degli individui, sia da parte dei relatori che del pubblico. “Quando si deve dire di no? Dov’è la linea rossa da non superare?”, chiede Ulrich Gantz al pubblico. “Non appena smettiamo di considerare l’altro come nostro simile, allora il peggio può accadere”, aggiunge Jean-Michel Gaussot. Una posizione che ha tormentato entrambi, nonostante il destino opposto dei rispettivi padri.

Come Ulrich Gantz, Barbara Brix ha avuto un padre medico delle Einsatzgruppen, le unità mobili delle SS e della polizia che, dal 1941, compierono massacri sistematici nelle retroguardie delle truppe tedesche impegnate sul fronte russo in un’offensiva genocida. Quello che il sacerdote cattolico Patrick Desbois qualche anno fa chiamò “Shoah delle pallottole” dopo una lunga ricerca su questo primo periodo dell’Olocausto perpetrato dai nazisti in quello che essi consideravano il loro “spazio vitale”.

Uscire lentamente dal silenzio

E all’insegnante in pensione è occorso tempo per affrontare il vero passato di suo padre. Un percorso ad immagine della popolazione tedesca dopo il 1945. “Dopo la guerra, non se ne parlava quasi mai, nella mia famiglia così come in gran parte della società tedesca”, racconta Barbara Brix a swissinfo.ch.

Certo, ci fu l’importante processo di Norimberga (1945-1946) contro alti dignitari nazisti. Ma inizialmente la giustizia tedesca rimase in gran parte passiva nei confronti degli ex criminali nazisti. Un non detto che cominciò ad essere rotto negli anni Sessanta.

Barbara Brix.
Barbara Brix a Losanna: “Non sono sicura che avrei sopportato delle giustificazioni da parte di mio padre”. swissinfo.ch

“A quel tempo, rammenta Barbara Brix, mio zio, un ex dignitario nazista vicino ad Adolf Hitler, scappò in Svizzera e in Italia per sfuggire alle indagini avviate su di lui. Fu infine condannato da un tribunale tedesco nel 1969. Questo episodio familiare mi scosse molto. Ero totalmente assorbita dalla lealtà familiare e avevo pietà dello zio. Il racconto familiare diceva che i testimoni ebrei erano spinti dall’odio e che la loro memoria era carente”.

Fu dopo gli studi di storia e di francese che Barbara Brix cominciò a capire meglio ciò che era accaduto in Germania, soprattutto perché cominciavano ad apparire molti libri e film sull’argomento.

“Con mia sorella, eravamo coinvolte nel movimento antiautoritario e cominciammo, come molti altri, a interrogare aggressivamente i nostri genitori su ciò che sapevano e avevano fatto all’epoca, spiega Barbara Brix. E le reazioni di mio padre, che non sapeva cosa rispondere, mi delusero molto, perché pensavo che lui fosse forte e moralmente integro. Negava molte cose. Avrei potuto fare più domande a mio padre, morto nel 1980. Ma che cosa avrebbe risposto? Non sono sicura che avrei sopportato delle giustificazioni da parte sua”.

E la Svizzera?

Un incontro analogo potrebbe avere luogo anche tra svizzeri? “È una domanda che ci hanno posto i nostri partner tedeschi, risponde il segretario generale del CICAD, Johanne Gurfinkiel. La Svizzera non ha partecipato alla deportazione e allo sterminio degli ebrei. Il popolo svizzero si è fortemente impegnato a salvare persone perseguitate. Ma Berna ha comunque svolto un ruolo a favore di questa politica di sterminio, come la chiusura delle frontiere nel 1942 e l’apposizione di una J sui passaporti degli ebrei che cercavano di attraversare la frontiera”.

Tuttavia, un dibattito sereno sull’argomento non è ancora all’ordine del giorno, osserva Johanne Gurfinkiel: “La questione del ruolo della Svizzera durante la seconda guerra mondiale resta una questione complessa e scottante, perché non si vuole veramente affrontare a testa alta il problema e riconoscere tutti gli elementi che potrebbero chiamarci in causa”.

Il segretario generale del CICAD punta il dito sulle centinaia di svizzeri partiti per unirsi alle SS e all’esercito tedesco: “L’entità di questo impegno è minimizzata, anche se vi sono ricerche storiche e diversi articoli di stampa sull’argomento. Non si tratta di processare la Svizzera, ma di avere l’insieme degli elementi di quell’epoca terribile. Va sempre ad onore di un paese, saper affrontare la propria storia per costruire il proprio futuro”.

Al termine della conferenza a Losanna, Yvonne Cossu e Jean-Michel Gaussot discutono con i partecipanti. swissinfo.ch

(Traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)

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