«Per la prima volta c’è spazio per la speranza in Somalia»
Nuovo vice rappresentante speciale dell'ONU in Somalia, lo svizzero Philippe Lazzarini ha grandi speranze per il futuro di questo paese in rovina. Grazie al sostegno della comunità internazionale, il processo di normalizzazione è in atto.
Un “new deal” per la Somalia. È quanto ha proposto la comunità internazionale in occasione di due conferenze dette “della speranza”, tenutesi a Londra nel 2012 e poi a Bruxelles lo scorso autunno. Riconciliazione, ricostruzione e ripresa devono giungere entro i prossimi tre anni e sfociare in elezioni generali nel 2016.
L’Unione europea è convinta che un ritorno alla normalità sia possibile e lo sostiene con un budget di tre miliardi di euro su tre anni. Philippe Lazzarini, nominato di recente vice rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU in Somalia, un paese che conosce molto bene, ha le sue buone ragioni per puntare sul futuro.
swissinfo.ch: Il “new deal” raggiunto a Bruxelles mira a risollevare l’economia e stabilizzare il paese. Cosa significa per la Somalia di oggi?
Philippe Lazzarini: In Somalia c’è un livello di povertà assolutamente abietto. La stabilizzazione significa dunque dimostrare alla popolazione che avere istituzioni che funzionano ha un grande impatto sulla vita di tutti i giorni. Il presidente suole dirci: “Se voi poteste garantire al paese un accesso all’educazione, alla salute e all’acqua, un’amministrazione locale e una polizia, questo farebbe già una grande differenza nella vita quotidiana dei somali”. Perché senza sviluppo, non c’è pace che possa durare.
Philippe Lazzarini
I bisogni restano enormi. In totale, ci sono circa 2,3 milioni di persone che vivono in una situazione di precarietà alimentare.
swissinfo.ch: È però ancora necessario garantire la sicurezza delle popolazioni…
P. L.: Senza dubbio. Focalizziamo la nostra azione anche sulla sicurezza e il buon governo, attraverso programmi di stabilizzazione, non solo a Mogadiscio, ma anche nel resto del paese. Sostenere la formazione della polizia e delle amministrazioni locali fa parte dei miei compiti.
swissinfo.ch: Nel 2011 la Somalia è stata colpita dalla più grande siccità degli ultimi 60 anni e da una conseguente carestia. Qual è oggi la situazione umanitaria?
P. L.: Per la prima volta, a fine anno il numero di persone che necessitava di un aiuto umanitario urgente è sceso sotto il milione di persone [su una popolazione di 10 milioni, ndr]. La situazione è nettamente migliorata dal periodo della carestia.
Detto ciò, i bisogni restano enormi. In totale, ci sono circa 2,3 milioni di persone che vivono in una situazione di precarietà alimentare. E oltre a questo, si contano un milione di profughi interni e un milione di rifugiati nei paesi limitrofi.
Lo scorso anno il paese è stato poi colpito da un’epidemia di polio, una malattia che era stata eradicata nel 2007. Siamo riusciti a tenerla sotto controllo grazie a una campagna di vaccinazione.
Infine non bisogna dimenticare gli altri problemi di salute e le violenze sessuali. Tutto ciò in un paese dove l’accesso alle popolazioni, al di fuori delle città, è estremamente difficile.
Titolare di una laurea in scienze economiche e un “master of businness administration”, Philippe Lazzarini (49 anni) è stato delegato per il CICR nel Sudan del Sud, a Beirut, Amman e Gaza. Ha diretto le attività dell’organizzazione umanitaria in Bosnia, Angola e Ruanda.
È passato in seguito all’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, dove è stato vicedirettore della Divisione della coordinazione e degli interventi. Ha lavorato anche molto sul terreno, in particolare in Iraq, Angola, Somalia e nei Territori occupati.
Dal marzo 2013 è coordinatore e rappresentante sul posto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (PNUD) a Mogadiscio. A fine anno, Ban Ki-moon lo ha nominato vice rappresentante speciale ONU in Somalia e coordinatore umanitario.
swissinfo.ch: Il programma approvato dalla comunità internazionale include anche il sostegno alla pace. Cosa ne è dei gruppi armati e delle milizie di al shabaab?
P. L.: Il consiglio di sicurezza dell’ONU ha deciso di aumentare le risorse a favore dell’esercito nazionale somalo affinché possa condurre nuove offensive contro i gruppi armati.
Siamo in un processo di riconciliazione. Ma la missione dell’Unione africana in Somalia ha ricevuto un mandato per continuare a combattere tutti i gruppi armati che non vogliono partecipare, tra cui anche al shabaab.
swissinfo.ch: Dunque al shabaab non fa parte di questo “new deal”. Lo stesso vale per altri gruppi?
P. L.: È una questione politica. Il governo si è impegnato, e lo sta facendo tuttora, per tendere la mano a qualsiasi gruppo disposto a rinunciare alla violenza.
swissinfo.ch: La Somalia è teatro di una guerra civile da ormai due decenni. Ha notato una certa lassitudine da parte dei donatori e un calo di interesse dei media e della comunità internazionale?
P. L.: È vero che la crisi dura da vent’anni, ma per la prima volta ci è permessa un po’ di speranza. Lo si nota dalla reazione della diaspora somala, che è tornata per partecipare alla ricostruzione del pese. La Mogadiscio di oggi non è paragonabile a quella di un anno fa. Ovunque in città si sente il rumore dei martelli, si vedono impalcature. Sono stati lanciati piccoli commerci. C’è un’energia positiva.
Altri sviluppi
Oltre i sentieri dell’umanitario
Anch’io pensavo che in seno alla comunità internazionale potesse crescere una certa stanchezza. Ma d’altra parte c’è il desiderio che la Somalia sia una “positive story”, ci si vuole credere.
Le conferenze di Londra e Bruxelles hanno dimostrato che malgrado vi siano agende politiche in competizione con la Somalia, questa è rimasta in alto nella lista delle priorità.
Si nota tuttavia una diminuzione dei finanziamenti a favore dell’azione umanitaria, in proporzione a ciò che accade altrove.
swissinfo.ch: Quali sono le sue aspettative per il futuro e per il successo di questo “new deal”?
P. L.: È senza dubbio un anno cruciale. Alla fine del 2014 saremo già a un terzo del programma e un terzo del processo politico che dovrebbe condurre a nuove elezioni. Il governo deve poter dimostrare di essere in grado di garantire una certa sicurezza nelle città. Ciò dovrebbe permettere alle nuove istituzioni e ai partner dello sviluppo che le sostengono di convincere i somali che avere uno stato che funziona è meglio che continuare a vivere nel caos.
Bisogna dunque dimostrare che è possibile riconciliare Mogadiscio e le regioni, garantire un’educazione ai bambini, l’acceso alla salute, all’acqua, avere una parvenza di governabilità e di sicurezza che permetta alla gente di lanciarsi in nuove attività economiche.
Una guerra civile che dura da vent’anni e che avrebbe già fatto 500mila morti: è questa la sorte della Somalia dalla caduta del dittatore Siyaad Barre nel 1991. Il paese è stato retto per lungo tempo dalla sharia imposta dall’Unione dei tribunali islamici, fino al 2007 quando l’intervento dei vicini africani ha ridotto il peso dei fondamentalisti.
Oggi però il gruppo jihadista dei shabaab controlla vaste zone rurali, tre regioni si sono autoproclamate indipendenti e l’autorità del governo centrale non supera di molto le frontiere della capitale. L’economia è in rovina. Due milioni di persone soffrono la fame e altre due sono state costrette a lasciare la propria casa o il paese. Due anni fa, la carestia ha provocato 500mila morti in più. Nel 2001 la Somalia era l’ultimo paese nella lista dell’ONU per indice di sviluppo umano. Da allora non è nemmeno più in classifica.
Per la Svizzera, il Corno d’Africa è entrato nel 2013 a far parte delle regioni prioritarie dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Philippe Lazzarini ritiene che la Svizzera possa dare molto alla Somalia, in dossier chiave come il federalismo, le relazioni tra il centro e le regioni o la ripartizione delle risorse. Nel 2013 la Confederazione ha investito 27 milioni di franchi nella regione, di cui oltre due terzi per l’aiuto umanitario.
Nei campi profughi in Somalia, le donne corrono un forte rischio di essere stuprate o vittime di altre violenze sessuali, denuncia l’ONG Amnesty International.
Indagini, azioni penali e condanne per reati di questo tipo sono rare in Somalia. Le vittime non sono dunque spinte a sporgere denuncia, anche perché corrono il rischio di essere nuovamente aggredite, per vendetta. Le ONG denunciano inoltre l’attitudine della polizia, che tende ad accentuare atteggiamenti stigmatizzanti.
Secondo le Nazioni Unite, nel 2012 ci sono stati almeno 1’700 casi di stupro nei campi profughi in Somalia; almeno il 70% sono da attribuire a uomini delle forze militari governative. Quasi un terzo delle vittime sarebbe minorenne.
(Fonte: Amnesty International, 30 agosto 2013)
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