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Come gli USA potrebbero influenzare la politica svizzera nel Medio Oriente

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Donald Trump aveva spostato l'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme nel 2018, provocando una rottura delle relazioni diplomatiche con i palestinesi. È improbabile che Joe Biden revochi la decisione. Keystone / Abir Sultan

L'arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca ha sollevato questioni sul ruolo che gli Stati Uniti potrebbe tornare ad assumere nel processo di pace tra israeliani e palestinesi. La Svizzera continuerà a trarre spunto dalla politica statunitense nella regione o saprà ritagliarsi un proprio ruolo di mediazione?

La nuova amministrazione statunitense ha fornito qualche indicazione sulla posizione che potrebbe assumere nei confronti dell’annoso conflitto mediorientale. Alcuni rappresentanti del governo hanno indicato che Washington potrebbe fare marcia indietro su alcuni dei passi intrapresi dal predecessore di Biden – anche se non tutti – e ribadire il suo sostegno alla soluzione dei due Stati.

Tuttavia la diffidenza reciproca fra le due fazioni è più forte che mai, dopo quattro anni in cui Donald Trump ha decisamente favorito gli interessi israeliani. I leader palestinesi hanno già formulato l’auspicio di un maggior coinvolgimento internazionale nel processo di pace e prendono le distanze dal ruolo esclusivo degli Stati Uniti come mediatori.

Molti segnali indicano che la Svizzera è pronta a farsi avanti. Durante una visita nella regione nel novembre 2020, il ministro degli esteri elvetico Ignazio Cassis ha offerto i buoni uffici della Svizzera per facilitare il dialogo tra israeliani e palestinesi. La Svizzera promuove da tempo la soluzione dei due Stati.

Il contesto non sembra tuttavia indicare una rapida ripresa dei colloqui. Secondo gli esperti, molto dipenderà dalla capacità di Joe Biden di andare oltre i gesti puramente simbolici in favore della pace.

Marginalizzare i palestinesi

Il nuovo presidente statunitense si trova di fronte a una serie di decisioni del suo predecessore che intende riconsiderare.

Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e le alture del Golan come parte del territorio israeliano, ha tagliato i fondi destinati all’UNWRA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione che  fornisce aiuto ai profughi palestinesi, guidata allora come oggi da uno svizzero), ha chiuso l’ufficio dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) a Washington e ha negoziato i cosiddetti accordi di Abrahams che hanno condotto a una normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Stati del Golfo.

Inoltre l’ex presidente Usa ha anche dato il suo sostegno a nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania, abbandonando la posizione tradizionalmente sostenuta dagli Stati Uniti e da molti altri paesi, secondo cui questi insediamenti violano il diritto internazionale.

“Non c’era spazio per i palestinesi nella politica di Trump. Di fatto sono stati marginalizzati”, osserva Laurent Goetschel, direttore dell’istituto di ricerca swisspeace.

Anche la Svizzera ha vissuto un nuovo orientamento della sua politica in Medio Oriente durante la presidenza Trump. L’abbandono della via negoziale da parte degli USA ha comportato una marginalizzazione della posizione tradizionale della Svizzera favorevole al dialogo, osserva Goetschel, che insegna scienze politiche all’università di Basilea.

Il primo anno di presidenza di Donald Trump è coinciso con l’arrivo di Ignazio Cassis alla testa della diplomazia svizzera, nel 2017. Il politico liberale-radicale, vicino agli ambienti pro-Israele in Svizzera, ha dato una svolta conservatrice alla politica sul Medio Oriente, secondo Goetschel. Sebbene la Svizzera abbia mantenuto la sua ambasciata a Tel Aviv dopo la decisione di Trump nel 2018 e non abbia abbandonato la visione dei due Stati, le dichiarazioni e le azioni sul terreno hanno dato l’impressione che Berna si ispirasse al nuovo corso statunitense.

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Cassis nel 2018 ha affermato che l’UNRWA era parte del problema, perché mantenendo i campi profughi stava dando alla gente la speranza di un ritorno nei territori palestinesi.

“Ha ripetuto ciò che [il consigliere senior e genero di Trump Jared] Kushner aveva detto, quindi stava approvando pienamente la posizione di Trump”, afferma Riccardo Bocco, un esperto di Medio Oriente all’Istituto di studi internazionali e sullo sviluppo di Ginevra.

Cassis è stato criticato anche per altre dichiarazioni, tra cui l’elogio delle relazioni svizzero-israeliane solo poche settimane dopo che decine di palestinesi erano stati uccisi in scontri con le forze israeliane al confine di Gaza. Secondo Bocco, il ministro è stato costretto a scendere a compromessi sulla formulazione della strategia mediorientaleCollegamento esterno del suo dipartimento, ribadendo il sostegno alla soluzione dei due Stati.

Nelle interviste alla stampa, Cassis ha fatto marcia indietro rispetto alla sua posizione filo-israeliana, dicendo al quotidiano Le MatinCollegamento esterno: “La mia posizione è chiara e in linea con la continuità della politica svizzera”. Visitando la regione nel 2020, ha detto che “il ritorno alla diplomazia è urgente”, ha incoraggiato le due parti a negoziare e ha proposto Ginevra come città ospite per futuri negoziati.

Gli ultimi colloqui tra palestinesi e israeliani, mediati dagli Stati Uniti, sono falliti nel 2014.

Un ruolo per la Svizzera?

Bocco, da parte sua, è scettico sul fatto che gli svizzeri abbiano ora un maggiore spazio di manovra: “Cassis non aspira a diventare un mediatore nel conflitto – l’obiettivo è quello di sviluppare relazioni economiche con Israele”.

Secondo la sua strategia per il Medio Oriente, uno degli obiettivi della Svizzera – che precede il processo di pace – è quello di migliorare le relazioni economiche e finanziarie con Israele e in particolare di “sfruttare ulteriormente il potenziale nel campo dell’innovazione”. Negli ultimi anni, gli svizzeri hanno collaborato con israeliani e palestinesi in materia di scienza e innovazione, “strumenti politici che aiutano a raggiungere la pace e la stabilità”, come ha detto Cassis al quotidiano Le TempsCollegamento esterno.

Per Goetschel, questa diplomazia della scienza non è certo un segno che la Svizzera punta a un processo politico costruttivo.

“Se si potesse portare la pace in questo modo in Medio Oriente, sarebbe successo molto tempo fa”, ha detto. “Se la Svizzera vuole giocare un ruolo […] in termini di ricerca di soluzioni politiche per la pace, allora dovrebbe evitare di concentrarsi solo sulla scienza e la tecnologia”.

Qualsiasi opportunità di usare i suoi buoni uffici per facilitare il dialogo tra le due parti, e tra le fazioni palestinesi, dipende anche da ciò che gli altri Stati sono disposti a fare. In una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite alla fine di gennaio, i palestinesi hanno rilanciato un approccio multilaterale, chiedendo un ritorno del cosiddetto Quartetto di mediatori (USA, ONU, Unione Europea e Russia) e una conferenza internazionale di pace.

“Se c’è una riapertura della comunicazione tra le due parti, con un impegno adeguato di qualche tipo, allora la Svizzera potrebbe provare a giocare un ruolo”, ha detto Goetschel. Anche se il paese “non è l’attore più importante in questo contesto”, la sua posizione di custode delle convenzioni di Ginevra e di mediatore nel passato del dialogo tra Hamas e l’OLP lo rendono un buon candidato per cercare di costruire ponti tra le parti in conflitto.

“Ma la Svizzera può agire solo se c’è un quadro favorevole a questo approccio”, aggiunge.

Una politica statunitense simbolica?

È tuttavia poco probabile che gli Stati Uniti, che rimangono il mediatore più importante nel processo, cerchino di riavviare i colloqui tra palestinesi e israeliani. Un esperto di relazioni israelo-statunitensi, il professore Dov WaxmanCollegamento esterno dell’Università della California di Los Angeles (UCLA), si spinge a dire che qualsiasi colloquio nelle circostanze attuali è “destinato a fallire”.

Lo stesso segretario di Stato americano Anthony Blinken ha ammesso durante la sua audizione di conferma al Senato che non ci sono prospettive a breve termine per arrivare a una soluzione dei due Stati.

Anche Bocco osserva che la situazione sul terreno rende difficile dare un’altra risposta: Israele sta modificando il quadro complessivo con nuovi insediamenti in Cisgiordania; la sua “legge sullo stato nazionale” del 2018 afferma che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale [in Israele] è esclusiva per il popolo ebraico”, intrappolando gli arabo-israeliani in una discriminazione sistemica.

Ma molto dipende anche dalla reazione del presidente degli Stati Uniti agli sviluppi nei territori occupati e alla dichiarazione di sovranità di Israele sulle alture del Golan, dice Bocco: “Se Biden è d’accordo con [gli insediamenti] in Cisgiordania, allora questa è la fine delle [prospettive per] una risoluzione politica”.

Alla riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, pochi giorni dopo l’insediamento di Biden, gli Stati Uniti hanno messo in guardia entrambe le parti contro “i passi unilaterali che rendono più difficile una soluzione a due Stati, come l’annessione del territorio, l’attività di insediamento [e] l’incitamento alla violenza”. Ma il paese ha anche confermato che manterrà gli accordi firmati sotto Trump per normalizzare i legami tra Israele e gli Stati arabi, insieme al “suo fermo sostegno a Israele”.

In definitiva, Bocco prevede che Biden, egli stesso un sostenitore di Israele, si limiterà a “una serie di gesti di scarsa rilevanza politica”. Anche se è probabile che mantenga l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, il leader democratico prevede di ripristinare le relazioni con i palestinesi riavviando gli aiuti umanitari e riaprendo l’ufficio dell’OLP, la missione diplomatica dei palestinesi, a Washington.

Ma su altre questioni, la via da seguire è meno chiara. La nuova amministrazione ha espresso la volontà di riattivare l’accordo nucleare del 2015 con l’Iran, a cui Israele si è opposto con forza e che Trump ha abbandonato nel 2018. Biden ha scelto come suoi consiglieri ex funzionari dell’amministrazione di Barack Obama che hanno contribuito a formulare l’accordo.

Biden potrebbe aver bisogno di risolvere prima le differenze con il premier israeliano Benjamin Netanyahu – che affronta le elezioni generali a marzo – sulla questione dell’Iran e sul conflitto con i palestinesi. I due uomini in precedenza erano in buoni rapporti, ma il presidente degli Stati Uniti ha aspettato diverse settimane dopo il suo insediamento per chiamare il leader israeliano – un segno di relazioni potenzialmente più fredde tra i due, secondo alcuni osservatori. Netanyahu, secondo Goetschel, ha avuto da Trump un “sostegno incondizionato” che difficilmente continuerà sotto Biden.

Ci sono anche considerazioni interne da affrontare, compreso un elettorato evangelico pro-Israele che Biden dovrà corteggiare, e le divisioni all’interno del partito democratico su come gestire il conflitto israelo-palestinese.

“Biden starà attento a non aumentare le tensioni all’interno del suo paese”, afferma Goetschel. “Presumo che emergerà una politica più sottile – in quale direzione precisa è difficile da dire – ma di sicuro ci saranno dei riassestamenti verso una maggiore disponibilità al compromesso rispetto agli anni passati”.

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